Il valore dell’antico in sé per sé
Le valenze di un bene culturale possono essere molteplici e una di queste è la sua antichità, più è remota nel tempo la data di costruzione più è di valore
di Francesco Manfredi Selvaggi
30 Aprile 2025
Gli atteggiamenti verso i beni storici e, in particolare, verso il restauro sono variegati. Nel dibattito in questo campo vi è sempre stata una differenziazione tra chi sostiene che bisogna privilegiare la salvaguardia, ci stiamo riferendo a immobili stratificati nei quali cioè si colgono più fasi costruttive, di ciò che è più antico eliminando le sovrapposizioni successive e chi, invece, vorrebbe che venisse conservata la sequenza delle fasi ovvero degli strati di quel manufatto. La prima tesi è basata sul convincimento che abbia maggior valore l’antichità in sé per sé, più è remota nel tempo un’opera più è meritevole di tutela per cui vanno eliminate le modifiche che ha subito in seguito per far venire alla luce la configurazione originaria.
Il caso che piace citare al proposito è la distruzione della casa che inglobava il tetrapilo che è all’ingresso del teatro di Altilia per far uscire fuori, restituire alla vista quest’ultimo. Un secondo esempio il quale non rientra nell’archeologia in senso classico semmai nell’archeologia medievale è quello della chiesa di S. Mercurio a Campobasso la quale, illustre esempio di romanico molisano, venne “liberata” 50 anni fa dalla costruzione che le si era addossata, che le stava letteralmente addosso, sopra, un’azione non condivisibile. Estendendo il discorso, portandolo al livello urbanistico è forte il dilemma dei restauratori di fronte alla scelta se conservare l’edificato tradizionale oppure procedere alla sua demolizione e alla escavazione per far emergere integralmente la Sepino romana.
Quale Sepino romana poi? Il dubbio è su quale livello occorre raggiungere con lo scavo perché Altilia ha vissuto più periodi storici coincidenti con quelli della storia di Roma la quale è la sua “genitrice”, se quello repubblicano oppure quello augusteo o quello tardoimperiale. In quest’ultima epoca comincia la disarticolazione dell’immagine urbana scissa in gruppuscoli distinti di case separati da superfici adesso agricole ma in precedenza occupate da costruzioni, private o pubbliche, o mai utilizzate a fini edificativi perché destinate a futuri ampliamenti della città; è il settore nord-est individuato come regio IV che appartato com’è, situato in un angolo non partecipa alle evoluzioni urbanistiche della città, pur incluso nella cinta muraria.
Verso la fine dell’Impero Saepinum subisce una decadenza a cominciare dal suo centro rappresentativo dove troviamo, risalenti a questo momento della sua vita, ubicate attività produttive, il mulino ad acqua presso la Fonte del Grifo e le fosse coniche destinate a contenere anfore con derrate alimentari, e tombe, cose non proprio consone con il ruolo di rappresentanza che dovrebbe avere il foro, le quali sono solitamente ubicate nelle zone suburbane, non nell’area forense. È indubbio che ci sia più di un dubbio, scusate il bisticcio di parole, per quanto riguarda quale periodo storico far riemergere ad Altilia, si fu meno dubbiosi a Pietrabbondante la quale non essendo una città come l’altro sito, bensì un santuario perse la sua ragion d’essere divenuti con la romanizzazione obsoleti i culti delle divinità sannite per cui il luogo non fu più utilizzato.
È stato l’abbandono connesso alla fine della funzione religiosa e, magari, qualche smottamento dovuto alla fragilità idrogeologica che contraddistingue il territorio in cui è situato, il bacino del Verrino, e le scorrerie barbariche, siamo ai piedi di monte Saraceno, ad aver determinato la sua scomparsa, financo dalla memoria. Quello di Pietrabbondante che ci hanno restituito le ricerche archeologiche iniziate dai Borboni è un paesaggio antico, un’antichità assoluta non contaminata da segni antropici successivi. È come se il tempo qui si fosse cristallizzato, una situazione ben diversa quindi da quella di Altilia. Con un brusco capovolgimento di fronte lasciamo le cose grandi, spazialmente parlando, e passiamo a quelle piccole, a fatti singoli.
Parliamo ora di elementi lapidei decorati appartenenti a manufatti antichi reimpiegati in brani murari più recenti. Sicuramente tale reimpiego c’entra con il gusto antiquario e con il desiderio, ma è la stessa cosa, di abbellire la facciata della propria dimora incastonando iscrizioni, fregi, ecc. lapidei nella tessitura in filari di pietra della parete. Seppure si volesse non sarebbe possibile, non sarebbe assolutamente facile estrarre dal muro questi blocchi, o blocchetti che siano, calcarei aventi valenze artistiche per ricollocarle, mettiamo, in un antiquarium. È un fenomeno diffuso quello dell’appropriazione di pezzi lapidei appartenenti a fabbricati di età remota ridotti a rudere per inserirli in nuove strutture architettoniche a scopo adornativo o anche usarli come materiali da costruzione.
Tale tendenza al riuso di componenti di stabili di ere remote ovviamente non è limitata solo ad Altilia, ma la si coglie pure a Boiano, Isernia, Venafro, cioè in tutti gli ex-municipia. Va segnalata a tale proposito la difficoltà se non la temerarietà di una simile operazione allorché, e succede spesso, i conci di recupero vengono messi nei cantonali, diventano pietre angolari, oppure utilizzati come chiave di volta. Infine, rimanendo nel tema si ricorda che la Fontana Fraterna, simbolo di Isernia, un’autentica icona regionale è stata realizzata mediante l’assemblaggio, atto che è preceduto dallo smontaggio e che equivale al rimontaggio di frammenti di monumenti antichissimi, un collage davvero riuscito che, peraltro, testimonia della passione per l’antico che ci ha sempre coinvolto.
(Foto: F. Morgillo – La Basilica di Altilia)
di Francesco Manfredi Selvaggi
30 Aprile 2025