70 Anni dalla morte di Don Alfredo Ricciuto
Antonio Germano dal Bangladesh vuole ricordare la commemorazione che lui fece di Don Alfredo in occasione del 50.mo dalla scomparsa
di P. Antonio Germano – antoniogermano2@gmail.com
23 Aprile 2025
Celebrare il 50mo della morte di Don Alfredo è un atto di giustizia prima ancora che un debito di gratitudine da parte di noi Duroniesi verso uno dei nostri più eminenti concittadini, troppo a lungo dimenticato. Ovviamente Don Alfredo non ha bisogno di essere celebrato: l’eredità che egli ci ha trasmesso e che palpita ancora in chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, ne è la più viva celebrazione. Commemorare lui servirà però a noi, se, nella rilettura della parabola della sua vita, sapremo riappropriarci di quelli che furono i valori fondanti della sua esistenza. Così, dopo mezzo secolo dalla sua tragica scomparsa, riusciamo finalmente a far rivivere la sua memoria.
Purtroppo la maggior parte di coloro che avrebbero potuto arricchire con i loro ricordi e le loro testimonianze questa biografia mai scritta non sono più in mezzo a noi, perché hanno raggiunto anch’essi Don Alfredo nella casa del Padre. L’ultimo ad andarsene è stato l’esimio maestro Giuseppe Manzo, a noi tutti noto con il familiare nome di Peppino, il maestro Peppino. Lo scorso ottobre ero appena rientrato in Bangladesh, quando mi raggiunse la notizia della sua morte, che mi lasciò nello sconforto, perché ci legava insieme una lunga e profonda amicizia. Peppino ci teneva tanto a questa celebrazione, per la quale aveva già scritto alcune pagine, che mi aveva fatto leggere appena ci eravamo incontrati al mio rientro in Italia. Peppino era un frutto maturo di quella pianta che si chiama Don Alfredo. Rendendo omaggio a lui, si rende un tributo di lode a Don Alfredo. Tanti altri come Peppino avrebbero potuto narrarci del trasporto che Don Alfredo riusciva a trasmettere nell’assemblea dei fedeli con la forza della parola, a cui affidava la ricchezza del messaggio evangelico, avvalorato dalla sua coerenza di vita. L’abilità oratoria, penso, fosse una delle sue doti preminenti, riconosciutagli anche fuori dei confini della diocesi di Trivento. Per la sua fama di predicatore che incantava le assemblee, era spesso richiesto per corsi di predicazione in cattedrale e nelle varie parrocchie della diocesi.
Mio intento, comunque, non è quello di ricostruire la sua vicenda storica, per la quale occorrerebbe una documentazione adeguata, alla quale io non potrei attingere da queste distanze. Spero peraltro che i tanti interventi, che ci saranno in occasione del cinquantesimo, ci forniranno un quadro completo della sua vita di uomo e di pastore di un popolo in un tempo del tutto particolare della sua storia: il periodo prebellico, i lunghi anni della II Guerra Mondiale, seguiti da quelli della ricostruzione e, quindi, l’inizio del grande flusso emigratorio.
Questa lunga premessa mi è stata necessaria per costruire attorno a me quell’atmosfera, che, cavalcando l’onda del tempo, mi portasse a contatto diretto con Don Alfredo per potergli guardare fisso negli occhi, ascoltare di nuovo la sua voce e ritrasmetterla amplificata a tutti i Duroniesi sparsi per il mondo. Tracciare di lui un profilo biografico critico mi risulta un’impresa quasi impossibile. Infatti, egli è rimasto per me come il punto ideale e, nei tempi dell’adolescenza, quasi un mito, la stella polare, che, in un certo senso, ha orientato il corso della mia vita. Così per me, era impossibile che in lui ci fossero difetti, limiti o debolezze e per lungo tempo non riuscii a convincermi che lui fosse realmente morto. Dal giorno in cui appresi la sua morte, avevo allora poco più di 15 anni e frequentavo la IV ginnasio nel seminario di Trivento, divenne sempre più chiaro in me che il senso della mia vita sarebbe stato quello di prendere il posto di Don Alfredo nella realizzazione della vocazione missionaria, che lui, per le strane coincidenze dei disegni di Dio, non poté attuare.
Nel 2000, durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, ospite di mio cugino Antonio Morsella, andai a far visita con lui ad un nostro comune compagno di classe degli anni di Trivento, il quale si trovava a Holliston nel Massachusset. Si chiama Antonio Lalli ed è missionario saveriano come me. Lo rivedevo dopo circa 45 anni! Davvero straordinaria la sua vicenda: i suoi genitori, originari di Castiglione M. M., emigrarono all’epoca in cui noi frequentavamo il ginnasio a Trivento. Ovviamente il figlio partì con loro. Negli Stati Uniti venne in contatto con i Missionari Saveriani, ivi presenti ed operanti. Accolto da loro, poté continuare gli studi fino all’ordinazione sacerdotale e poi fu inviato come missionario in Amazzonia. Tutto questo, naturalmente, io venni a saperlo molti anni dopo e, cioè, solo quando, anch’io come lui, diventai missionario saveriano. Quando ci incontrammo a Holliston, dove P. Antonio Lalli svolge la sua attività come direttore di una rivista missionaria, rievocammo gli anni di Trivento. La prima cosa che mi ricordò fu dell’impressione lasciata in lui da quanto io ebbi a dire al mio ritorno da Duronia, dove avevo partecipato ai funerali di Don Alfredo. Ancora scosso dalla commozione, avrei detto: “Io prenderò il suo posto!”. L’espressione lo colpì tanto che se la ricordava ancora a 45 anni di distanza!
Il contatto con Don Alfredo o, meglio, la percezione della sua presenza nella mia vita incomincia in terza elementare. Con tanti altri miei coetanei, tra i quali ricordo mio cugino Antonio Morsella, Elio Manzo, Dario Ricciuto ed Angelo Ciamarra cominciai a fare il chierichetto. La messa allora si diceva in latino ed il punto cruciale per tutti noi era quando, arrivati all’Orate, fratres, bisognava dare la fatidica risposta Suscipiat Dominus. Si partiva a spron battuto, sparando ad alta voce Suscipiat, poi, man mano la lingua si incespicava e dalla bocca usciva un barbugliare confuso, che emergeva trionfalmente e con un sospiro di sollievo nella clausola finale Ecclesiae suae Sanctae.
Le lezioni di catechismo in preparazione alla prima confessione e alla prima comunione si svolgevano nella vecchia chiesa di S. Rocco, sempre risplendente di quella luce, che, entrando dagli ampi finestroni, si riverberava negli stucchi delle pareti, che agli occhi di noi bambini apparivano sconfinate. Ma la Chiesa Madre, la Chiesa a la Terra rimaneva il cuore palpitante della comunità parrocchiale di quegli anni, soprattutto nei giorni di festa. La domenica, ai primi rintocchi della campana ci si arrampicava per la scorciatoia scoscesa delle rocce, che portava sulla spianata prospiciente la sagrestia. Qui si sostava, nei nostri abitini, più o meno rattoppati, ma resi fulgidi dalla gioia della festa. Da lì il panorama, ancora adesso stupendo, si animava di una vitalità straordinaria. Dalle contrade, situate a raggiera sul territorio comunale, convergeva verso il centro la lunga teoria della gente, che veniva a celebrare il giorno del Signore, percepito nella sua dimensione giusta di incontro con Dio e comunione con i fratelli.
Nel mese di dicembre le cerimonie si infittivano e assumevano una tonalità tutta particolare: dal rigore invernale emergeva il calore della comunità parrocchiale, che si ritrovava e si riconosceva come famiglia di Dio. Era il mese delle grandi novene, che, per la concomitanza delle occorrenze, si celebravano al mattino presto o alla sera: si cominciava con la novena di S. Nicola, seguita immediatamente da quella dell’Immacolata, S. Lucia e poi, con qualche giorno di intervallo, si sfociava nella solennità della novena del Natale. E qui emergeva una figura di spicco, che per tanti anni è stato un personaggio caro a generazioni di Duroniesi. Mi riferisco all’organista e sagrestano Alfredo Ciamarra, che noi, bonariamente chiamavamo Alfrede d’ Trella. Durante la novena, il canto accompagnato dal vecchio organo creava un’atmosfera, che non è più possibile risuscitare, perché appartiene ad una cultura e ad una tradizione che sembrano lontane da noi anni luce. Per noi ragazzi ogni volta era una corsa per impadronirsi delle due stanghe che attivavano i mantici a pompare aria nelle canne dell’organo. Non tutti erano in grado di sincronizzare i movimenti in maniera che l’aria fluisse dai mantici in maniera regolare, senza balzi e questo naturalmente irritava il bravo organista, che lanciava occhiate di fuoco o mugolii di disapprovazione verso l’incauto manovratore.
Altro momento catalizzatore nella vita parrocchiale era la celebrazione della Pasqua, che aveva i suoi momenti culminanti, allora come adesso, nel Giovedì e Venerdì Santo e nella Veglia Pasquale. Ma era il Venerdì Santo con la coreografica processione al Calvario che esercitava su di noi un fascino particolare. Al mattino presto era un correre per accaparrarsi gli strumenti tradizionalmente legati alla Passione di Gesù, che si portavano in processione: le tre croci, la scala, la corona di spine, il gallo, i flagelli, ecc. Arrivati alle tre croci, che sormontavano il Calvario, Don Alfredo toccava il cuore di tutti con la impareggiabile rievocazione della Passione e Morte di Gesù.
Alla Pasqua seguiva a benedizione delle case, prima in paese e poi nelle borgate. Era un momento atteso con ansia da noi chierichetti, che, a turni, accompagnavamo Don Alfredo. Eravamo, di solito, in due: uno portava il secchiello dell’acqua santa e l’altro il cesto (r’panare) per la raccolta delle uova, generosamente offerte dalle famiglie. Senza peccare di presunzione, penso di essere stato uno dei più fedeli accompagnatori in questa routine pastorale particolarmente significativa, a cui Don Alfredo dava molta importanza, perché gli permetteva di venire in contatto con tutti i parrocchiani. Nell’anno che precedette la mia entrata in seminario, ebbi modo di accompagnarlo di casa in casa, in paese e nelle frazioni. La sua età allora si aggirava intorno ai 40 anni ed era quindi ancora nel fiore degli anni, anche se la precoce caduta dei capelli lo faceva apparire più anziano ai nostri occhi. Nelle frazioni ci si andava a piedi, perché Don Alfredo non aveva ancora comprato la famosa Gilera, con la quale avrebbe poi scorazzato e corso via come il vento per le strade allora non asfaltate. Camminando insieme si aveva perciò modo di parlare. Era in queste circostanze che appariva la sua anima più vera e si manifestava quello che era l’ideale della sua vita: annunciare il Vangelo di Gesù in terra di missione. Si capiva allora che gli orizzonti della parrocchia gli stavano troppo stretti. Soltanto molto più tardi venni a sapere che Don Alfredo era un missionario del P. I. M. E. (il Pontificio Istituto per le Missioni Estere di Milano). La sua ordinazione sacerdotale, infatti, avvenne per le mani del Cardinal Shuster, allora Arcivescovo di Milano. Ovviamente le sue parole per me divennero come il seme della parabola che collegava la mia vita ai disegni misteriosi di Dio. Legato alla benedizione delle case c’è un episodio che mi piace qui ricordare. Un anno, non ricordo esattamente quale, nel nostro giro del paese, eravamo approdati alla casa di Cesarina, la sarta del paese, che, qualche anno dopo, avrebbe confezionato per me la mia prima veste talare. Adesso mi viene in mente che, a quell’epoca, per entrare in seminario bisognava essere forniti di una divisa nera. Per i pantaloni, mio padre aveva rimediato in qualche modo; per la giacca, invece, aveva pensato bene di rispolverare la vecchia giacca della milizia fascista. Terminata dunque la benedizione della casa di Cesarina, ci apprestavamo ad uscire. R’ panare, ormai quasi pieno di uova, era nelle mie mani. Posto il piede sul gradino della lunga ed ampia gradinata di accesso, inavvertitamente, scivolai rotolando giù come una trottola e trascinando con me nella caduta anche il cesto con le uova, che lasciarono sui gradini una enorme frittata. Con le ossa sane, ma afflitto e sconsolato, rosso di vergogna, guardai verso l’alto aspettandomi un solenne rimbrotto. Invece, la gran risata di Don Alfredo, che aveva seguito divertito tutta la scena, sbloccò la situazione d’imbarazzo, che si era creata attorno.
La casa di Don Alfredo, al Colle della Croce, esercitava su di noi un fascino straordinario; la consideravamo come nostra, luogo di incontro e di ritrovo. Ci aggiravamo nel cortile abbellito da splendide aiuole sotto lo sguardo benevolo di Zuara, che ci voleva un mucchio di bene e non appariva mai stanca o indispettita. Era quello il periodo splendido dell’Azione Cattolica e noi eravamo gli Aspiranti: avevamo a piena disposizione, per le nostre scorribande, la casa del parroco. Nel cortile campeggiava un gran ciliegio, verso il quale i nostri sguardi erano calamitati man mano che le ciliegie si dipingevano di rosso. Sotto la casa, comunicante con la strada rotabile, c’era un ampio locale, che serviva da garage e da ripostiglio. Per me e per mio cugino Antonio era il luogo delle nostre piccole avventure. Durante il carnevale appendevamo una lunga e robusta fune, abbandonandoci al dondolo dell’altalena (r’ziambra).
Un anno tutto particolare per me fu quello che mi vide impegnato a preparare gli esami di ammissione alle Medie. Avevo terminato la V elementare sotto la direzione dell’emerito maestro Marco Berardo. I miei genitori ci tenevano a che io continuassi gli studi, ma il disagio economico non consentiva loro di mandarmi fuori a studiare. Mia madre peraltro, nostalgica del mestiere di mio nonno Antonio, avrebbe voluto che io diventassi sarto. Don Alfredo, però, aveva posto gli occhi su di me. Per non farmi perdere completamente l’anno, si assunse personalmente il compito di prepararmi agli esami di ammissione alle Medie. Così il contatto con lui divenne sempre più assiduo e maturò nella decisione presa insieme con i miei genitori di mandarmi nel Seminario Diocesano di Trivento. Poi il Signore avrebbe pensato a fare il resto. Per sdebitarsi del gran favore a me concesso (un anno intero di ripetizioni, senza pretendere una lira in contraccambio), per la Pasqua del 1951, i miei genitori mi chiesero di portare in dono a Don Alfredo l’unico agnello dell’anno, cresciuto ed allevato da me, che, tra l’altro, facevo anche il pastorello.
C’erano poi quelle visite serotine in famiglia, che egli ci regalava di tanto in tanto. Lo scopo, probabilmente, era di informare i miei genitori sul mio andamento scolastico o sulla mia condotta. Io non mi chiesi mai il perché di quelle visite, mi ricordo, però, dell’atmosfera di festa che si stabiliva fra noi, non appena egli entrava in casa.
Tanti altri aspetti della sua vita e della sua opera sono rimasti fuori di queste pagine. Un’ipotetica tavola rotonda con i miei compagni d’infanzia, rimovendo il denso strato di 50 anni d’oblio, avrebbe potuto fare emergere un quadro più vivo e più completo di Don Alfredo. Mi auguro che la celebrazione del Cinquantesimo possa approdare a questo risultato.
Per quel che mi riguarda, in queste pagine, narrando lui, ho narrato un po’ anche me stesso per i misteriosi addentellati che trovano la mia vita come innestata nella sua. La sua rievocazione rappresenta per me come lo scioglimento di un voto, l’adempimento di una promessa.
(P. Antonio Germano, S. X. – Chuknogor, 19 Gennaio 2005 – Festa di S. Antonio Abate).
di P. Antonio Germano – antoniogermano2@gmail.com
23 Aprile 2025