Paese
di Rossano Pazzagli (da nautilusrivista.it) –
Riflessioni e suggerimenti a chi ha responsabilità politiche, economiche e sociali nei nostri territori
Il paese è casa, un tempo si diceva la patria. Che si tratti della nazione intera, sia che ci si riferisca al luogo dove si nasce o si vive, ha a che fare col senso di appartenenza a un luogo e a una comunità. “Un paese ci vuole”, scriveva Cesare Pavese alla metà del ‘900; un paese significa non essere soli, “avere gli amici, del vino, un caffè” avrebbe cantato dieci anni dopo Mario Pogliotti nella straordinaria e quasi dimenticata avventura musicale del “Cantacronache”.
L’Italia è, fondamentalmente, un Paese di paesi. Un’assonanza lessicale dal duplice valore semantico che la nostra bella lingua consente; una rete essenziale di borghi, villaggi e contrade che da Nord a Sud popolano il territorio della penisola fin nelle valli più strette e sui più impervi crinali.
È l’Italia interna, prevalentemente collinare e montuosa, vittima sacrificale di un modello di sviluppo che ha marginalizzato le zone rurali, privilegiando i grandi centri urbani, le poche pianure e qualche tratto di costa.
Un Paese che tra il 1950 e il 1970 si veniva trasformando in una nazione industriale, sempre più urbanizzata e afflitta da crescenti squilibri territoriali. Fino ad allora il paese – anche il più piccolo – era un luogo di vita nel quale si esprimeva un comune sistema di valori, dove si intersecavano conflitto e solidarietà. Ogni paese aveva le sue tradizioni, la sua radice culturale, perfino il suo linguaggio.
Gran parte dei paesi si trova lassù, sulle alture di un Paese che ha abbassato il suo baricentro. Distesi sulle colline, ammucchiati sulle sommità dei colli o aggrappati alle pendici dei monti, sono lo specchio della lunga storia della penisola, non soltanto un accumulo di case intorno al campanile, ma un deposito di identità e di cultura.
I paesi ci sono ancora, ma adesso viviamo soprattutto quaggiù: ad un certo punto, infatti, l’Italia è scivolata a valle e i paesi sono rimasti soli.
Da ambiente di vita (e di vitalità) il paese è diventato un luogo di resistenza, o di “restanza” per riprendere l’efficace espressione di Vito Teti. Se l’Italia – il Paese – era già nell’opera di Giuseppe Verdi “la patria si’ bella e perduta”, oggi anche il paese si è smarrito. Siamo in presenza di uno spaesamento, nel senso del disorientamento, ma anche in quello più letterale di perdita del paese: un indebolimento della coscienza di luogo e una crisi identitaria, anche se dobbiamo sempre ricordarci che l’identità non è un dato, ma un processo incessante, vivo e creativo. Così, una gran parte del territorio – quella delle campagne e dei paesi, appunto – si è ritrovata ai margini, diventando una grande periferia trascurata o dimenticata, svuotata di abitanti, funzioni e servizi, ferita nei diritti.
Come riportare i margini al centro, o il centro in periferia? Questa vasta Italia, ingiustamente definita “minore”, contiene un patrimonio diffuso fatto di prodotti, ambiente, servizi ecosistemici, paesaggi, valori culturali, salute e virtù civiche che ci serve per rispondere alla crisi del presente, una crisi al tempo stesso economica, sociale, politica e infine anche sanitaria.
Il paese è fatica, il paese è poesia. Rimettere al centro i paesi, rifuggendo la retorica del piccoloborghismo ed evitando la chimera del borgo turistico-consumistico omologato ora alimentati perfino dai soldi del PNRR, sarebbe un bel programma per il futuro. Tornare ai paesi per sperimentare un nuovo modo di vivere, di produrre e di consumare.
C’è già, nelle pratiche nascoste dell’Italia paesana un pur timido fenomeno di ritorno, rappresentato da alcune esperienze di rinascita territoriale e da una serie di casi di agricoltori, allevatori, smart workers, artisti, enogastronomi… che spontaneamente hanno preso la strada dell’interno, della campagna e dei paesi.
La tendenza al ritorno deriva anche dalla crisi del modello urbano. Ma lo spopolamento e i problemi dei paesi non possono essere risolti applicandovi lo stesso modello che li ha marginalizzati. E neppure dal solo turismo. Occorre ridare valore all’agricoltura, all’allevamento e all’artigianato con filiere corte, gestione collettiva dei beni comuni, microimprese cooperative, accoglienza, solidarietà al posto della competizione, in un quadro di politiche differenziate che a partire dalla fiscalità e dai servizi favoriscano condizioni di uguaglianza: scuola, sanità e trasporti in primis.
È la via per sfuggire ai rischi della colonizzazione culturale, dello snaturamento e dello spaesamento.
Il paese è comunità, non è solo un borgo, né un buen retiro; è luogo di attività e di incontro, spazio di vita. Ecco perché è importante ridare valore alla parola “paese”: perché è la rete dei paesi a definire l’identità delle regioni italiane, la pluralità dei paesaggi e delle culture; perché anche nel linguaggio comune, dal Nord al Sud, quando si vuole indicare il luogo dove si nasce, dove si torna o dove si resta, si dice “paese”, non “borgo”: vado in paese, torno al paese, ecc.
Il borgo riguarda soprattutto la dimensione urbanistica, definisce più il contenitore che il contenuto, mentre il termine ‘paese’ rimanda alla comunità, all’insieme di relazioni e funzioni che includono le persone, le loro attività, i loro sentimenti di appartenenza e di vicinato. Il paese è un tutto nel tutto, mentre il borgo è solo una parte, una visione parziale e riduttiva della comunità. Anche storicamente, il borgo indicava soltanto una parte del villaggio fortificato, oppure un aggregato di case sviluppatosi nel suburbio, cioè subito fuori delle antiche mura.
La parola “paese” è una spinta a invertire lo sguardo, a guardare al “Paese” – cioè all’Italia – non più soltanto dalle grandi città – Roma, Milano, Napoli – o da un centro che osserva e governa le sue periferie, ma da Fontecchio o da Suvereto, da Biccari, da Campegine o da Ostana, come da un qualsiasi altro paese della penisola, dalla Sicilia al Trentino.
Ci sembrerà allora di intravedere un Paese diverso, scorgendo equivoci, paradossi, dialoghi spezzati, ma anche una ricchezza celata dall’abbandono, dietro le finestre chiuse e gli intonaci cadenti, lungo i campi che son tornati ad essere bosco, nei valori e nelle tradizioni collettive non ancora spente del tutto, nell’inquietudine di chi è rimasto, ma anche nel desiderio di una rinascita delle comunità locali come componenti significative della società italiana.
Una rete di paesi, vista nella prospettiva di riannodare i fili tra l’Italia estesa dei margini e l’Italia puntuale delle città, prefigurando sul piano culturale e politico una via da percorrere: quella di investire sui paesi, diffusi ovunque e carichi di storia, “plessi nervei” della vita italiana – come scrisse Carlo Cattaneo – per un nuovo protagonismo locale nell’orizzonte globale.
di Rossano Pazzagli (da nautilusrivista.it)
li 8 Settembre 2025

