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Costumi Popolari del Molise

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"Siamo piccoli ma ricchi di storia"

di Adele Rodogna (da altosannio.it)

28 aprile 2016

Lo studio dell’ abbigliamento popolare tradizionale vanta delle radici illustri e profonde da ricercare nella scienza etnologica italiana della fine del sec. XIX, allorquando, sotto l’influenza delle teorie positivistiche, si assiste ad un rinnovato interesse per la cultura materiale e per i beni demologici e ad una rivalutazione del costume e dell’abito popolare. Interesse che assume metodologie esplicitamente storiche, a volte sociologiche e semiologiche, a volte collegate alla storiografia e alla iconografia delle arti minori. Sul versante della cultura popolare, si privilegia la metodologia della ricerca sul campo, fondamentale negli studi antropologici, utilizzando i materiali d’archivio, come i dati derivanti dalle inchieste napoleoniche, pontificie, borboniche, gli inventari dotali, le immagini a stampa o fotografiche ed altri documenti d’archivi.
Infatti lo studio sui costumi popolari non può prescindere, come ogni altro aspetto della cultura popolare, dalla dimensione storica a cui si riferisce, talvolta permeata di elementi che investono la sfera del sociale, del magico, del religioso, dell’astratto. Particolarmente significativa è l’identità di appartenenza ad un certo status sociale o ad una determinata etnia, che il costume popolare rappresenta: esso – a seconda dei casi – rivela o nasconde sentimenti, ruoli sociali e professionali, differenze tra la povertà o la ricchezza, segni di regalità o di dimissione, elementi votivi e simbolici. Dunque il costume è “portatore di una cultura segnica”, per cui studiare i costumi popolari vuol dire analizzare e capire da dove essi giungano o da quanto tempo esistano o quali elementi primigenii ed originali abbiano conservato.
 Per conoscere le fogge dell’abbigliamento popolare molisano, occorre rifarsi soprattutto alle fonti iconografiche sul costume, che costituiscono un materiale particolarmente ricco ed attendibile e che ritraggono un popolo contadino, quello molisano appunto, dedito all’agricoltura e alla pastorizia, talvolta ad attività artigianali e commerciali.
Di indiscussa importanza è la serie di acquerelli fatta eseguire, negli anni 1783-1787, da Ferdinando IV di Borbone in tutte le province del Regno di Napoli e che ritrae le fogge nel vestire degli abitanti delle provincie da lui amministrate. L’intento del re era di ottenere nuovi soggetti da riprodurre sia sulle famose porcellane delle reali fabbriche sia su stampe da diffondere nel Regno di Napoli ed oltre i suoi confini. Le tempere, alcune custodite presso il Museo Capodimonte in Napoli e altre ancora presso musei privati, ritraggono abiti popolari – tutti cerimoniali – che imitano quelli signorili, certo in una versione più grossolana, ma che confermano i continui scambi tra Napoli, capitale del Regno, ed i paesi molisani, a riprova del fatto che le difficoltà di accesso nel Molise non creavano un serio ostacolo all’infiltrazione di novità culturali di ogni tipo.
Esistono, infatti, collezioni di un certo numero di acquerelli, tempere, incisioni, che riproducono con esattezza i modi di vestire contadino dal Settecento al Novecento; di esse – la più antica – è conservata presso la Biblioteca Provinciale “P. Albino” di Campobasso, denominata Fogge di abito da uomo e da donna secondo il costume in uso nel sec. XVIII. Si tratta di acquerelli in seppia scura, non firmati, di nove località molisane, riproducesti gli abiti maschili di Bagnoli del Trigno, Baranello, Capracotta, Carovilli, Castelluccia in Verrino, Castelpizzuto, Lucito, Pietracupa, Santangelolimosani e quelli femminili di Bagnoli, Castelluccia in Verrino, Castelpizzuto, Lucito.
 Costume di Carovilli
Sono della seconda metà del 1800 e dell’inizio del 1900 le fotografie dello Studio Trombetta, di Campobasso, colorate ad acquerello da Antonio Trombetta e a tempera dal figlio Alfredo, le quali hanno avuto ampia risonanza e diffusione per la pregevole qualità tecnica delle riproduzioni e per la fedeltà storica; il loro successo ne ha reso possibile la riproduzione, su cartoline, conservate nel Museo nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari di Roma. Alcuni anni dopo la morte di Ferdinando IV, avvenuta nel 1832, la Stamperia Reale pose in commercio una Raccolta, conservata presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, intitolata Costumi di alcune popolazioni de’ Reali domini di qua del faro, comprendente figure di coppie, uomo e donna, vestite con i costumi di Carovilli, bagnoli del Trigno, Castelpizzuto, Santangelolimosani, Belmonte del Sannio. I costumi molisani sarebbero comparsi anche su ceramiche molisane, prodotte nella fabbrica di Pescolanciano, la quale – fondata dal Duca Pasquale Maria D’Alessandro – aveva presto raggiunto notevole fama nel Regno di Napoli, nonostante il suo breve ciclo di vita, dal 1783 al 1795.
Altro documento pregiato è la collezione privata di 46 bambole Lenci, alte ciascuna cm. 70, di appartenenza dell’avv. Cesare Bevilacqua. Molto interessanti sono le miniature del Chronicon Vulturnense, del sec. XII, gli affreschi del sec. IX di San Vincenzo al Volturno e quelli del sec. XIV di Sant’Angelo in Grotte e di Jelsi, nonché alcuni bassorilievi di chiese romaniche e di palazzi molisani del primo Rinascimento.
Dall’analisi comparata di queste fonti iconografiche e con l’ausilio di testimonianze letterarie, si è potuta ricostruire la storia del costume popolare molisano, che potremmo definire tale, perché – nato principalmente per consentire il lavoro nei campi – richiedeva abiti larghi che assicurassero ampia libertà di movimento. Gli abiti venivano confezionati in casa, con telai rudimentali. Per quanto riguarda la tintura delle stoffe, in mancanza di sostanze chimiche coloranti, si cercava di ottenere il colori da agenti naturali: il nero dalla fuliggine grattata dalle gole dei camini o dei paioli, il grigio dal mallo delle noci, il rosso dalla robbia, dal verzino, dalle barbabietole; l’azzurro dall’indaco, il giallo dall’erba guada, e così via…. Metodi questi, inventati dagli anziani e poi migliorati dall’esperienza, che suggeriva altre combinazioni per regolare l’intensità delle tinte e per ottenerne altre. I tessuti venivano poi venduti nelle fiere, nei paesi più grandi, come Campobasso o Boiano; ma era anche possibile comprarli presso le gualchiere, operanti lungo il corso dei fiumi, e presso i laboratori di Sepino, Frosolone, Isernia, Boiano, Cantalupo, Roccamandolfi, Capracotta, Acquaviva Collecroci, Guglionesi.
 Costume di Castel del Giudice
Molto pittoresca la descrizione di Amy Allemand Bernardy su alcune caratteristiche essenziali delle fogge di vestire molisane: “ Così, specialmente nel Molise, una certa larghezza di piani coloristici e la bellezza del loro contrasto col candore delle tele bianche inamidate…, noteremo la ricchezza del corsaletto e del grembiule orlati di larghi galloni floreali ricamati di oro e d’ argento, le pettinature e trecce a cerchi imbottiti di stoppa e rivestiti di bianco, con lo spillone d’argento”.
Ma è attraverso lo spirito dei viaggi e delle descrizioni dell’età illuministica che, accantonata l’erudizione, ci si impegna a guardare con “spiriti civili e riformatori” la vita contadina locale e reale. Testimonianza significativa è in tal senso l’opera di Giuseppe Maria Galanti, Descrizione dello stato antico ed attuale del contado di Molise del 1781, che descrive, ad es. gli zampitti, tipici della zona di Isernia e Campobasso, ed oggi ancora in uso, calzature formate da “cuoi d’asino non concio, con cordelle annodate al di sopra dei malleoli, a guisa di socco”.
Le prime sistematiche notizie furono fornite dalle risposte ai quesiti diramati nel 1811 dal Ministero dell’Interno di Gioacchino Murat per la rilevazione statistica delle condizioni di vita delle popolazioni amministarate nel regno, divulgate da A. M. Cirese nel saggio Intellettuali e mondo popolare nel Molise, in cui leggiamo, ad esempio, che a Frosolone le donne “nell’inverno raddoppiano le vesti, attenta la rigidezza del clima e nell’estate si minorano” o che a Chiauci le donne vestono “di gonnella di panno di lana che a gran stento si lavora da poche in casa, e molte si comprano panni vecchi per non aver possibilità di farsi abiti nuovi”.
 Costume di Belmonte del Sannio
Le gonne, per lo più molto lunghe, ampie e talvolta arricciate in vita, erano preferibilmente di colori scuri – nero, blu, marrone, verdone, rosso scuro – così voluti dalle leggi suntuarie (= dal lat. sumptus, lusso), introdotte per porre un freno all’insana smania di sfarzo e di novità, per far apparire meno lo sforzo; avevano un sistema di plissettatura a strette canne d’organo ( a organetto), con una doppia balza intorno ai fianchi per sorreggerli durante i pesanti lavori campestri. Per aumentare l’ampiezza della gonna ed accentuarne nel camminare il movimento di oscillazione, a Boiano s’interponeva nel piegone baciato una increspatura di pochi centimetri, ru mazzètte, a Cercemaggiore si rendeva più fitta la plissettatura al centro per circa quattro centimetri. Piedi e gambe, fino al ginocchio, venivano ricoperti di calze di pezza e, più recentemente, di filo di lana o di cotone lavorato ai ferri, il cui colore talvolta servì a caratterizzare anch’esso l’abito, come il ciclamino per le donne di Baranello ed il rosso per le donne di Frosolone. La parte su cui poggiava il grembiule era quasi sempre lasciata liscia per donare slancio alla figura, ad imitazione delle sontuose gonne spagnole di fine secolo XVI; slancio che era raggiunto con il corpetto, che veniva stretto intorno al busto, e comprimeva in alto il seno, ad eccezione di Campochiaro, ove era schiacciato da una fascetta girata più volte su di esso, secondo un influsso francese, ed era sorretta da bretelle oscillanti nella larghezza da una misura minima, così da essere quasi invisibili, ad una massima, così da coprire l’intera spalla. I bordi del corpetto venivano rifiniti all’esterno e all’interno con una fettuccia rossa, verde, rosa o celeste, chiamata pedìa a Cercemaggiore, zagarella a Longano, a Macchiagodena e a Sant’Agapito. Le stringhe potevano essere modificate al pari delle maniche, che potevano essere sfilate facilmente dall’abito durante il lavoro, o salire con vario taglio verso le spalle, per agganciarsi al corpetto mediante cordelline o nastri arricchiti da piccole coccarde o passamanerie. Molto originale il corpetto di Spinete, coperto con un rettangolo di cotone bianco, arancione per le vedove, finemente ricamato, detto tuagliòla, e a Boiano, dove se ne prolungava la parte posteriore oltre la vita, a mò di redingote, praticandovi tre spaccature.
La camicia bianca, di lino o di cotone, era l’unico indumento intimo che fungeva anche da capo esterno; le donne più meschine – per adoperare un termine dell’Inchiesta murattiana – avevano questo capo in due tessuti, fine per le parti esterne, grossolano per quelle coperte dall’abito. Essa poteva avere il taglio della scollatura rotondo, quadrato o a punta, e i polsini diritti e stretti o cascanti a forma di corolle capovolte, con volant di sapore francese, talvolta impreziosita con merletti, all’uncinetto o a fuselli. Per i giorni feriali le guarnizioni erano trine colorate; per quelli festivi e per le nozze erano dorate; degni di rilievo erano i ganci con placche a forma rotonda, ovale di cuore o di foglia, dette ciappe, in filigrana d’argento e talvolta d’oro, che resero pregiati i costumi di Roccamadolfi, Longano e Sant’Agapito e che erano una prerogativa delle donne maritate. L’introduzione nel secolo XVIII delle guarnizioni e degli ori, in precedenza vietati dalle leggi suntuarue, risultarono un efficace mezzo di affermazione dell’identità sociale.
 Costume di Capracotta
L’espressione “ru piette de ru matrimonio e de la morte”, usata a Sant’Agapito, spiega l’estrema cura con cui erano custoditi i corpetti più belli, riservati per i momenti significativi della vita. La scelta dell’altezza, del colore, del disegno dei galloni e delle trine, la loro distribuzione sulle singole parti dell’abito vennero ad indicare se esso era riservato alle nozze, alle feste o al lavoro, oppure se la persona che lo indossava era libera, fidanzata o vedova. Il lungo laccio d’oro, ad esempio, che scendeva verso terra, veniva fatto risalire ed appuntato, poi, sul petto a destra, per indicare il cuore libero, a sinistra cuore impegnato.
Fra le collane in voga, quelle di corallo, le cannacchie ad acini vuoti o i senacoli ad acini ugualmente vuoti, ma poliedrici, che giravano intorno al collo e, come i lacci in filigrana tubolare o a nastro, si corredavano di ciondoli vistosi, come la presentosa di forma stellare con al centro due cuori o un bastimento. Molto usati anche orecchini, anelli, spille e ciondoli con funzione apotropaica, che erano denominati pandantiff, dal francese pendant e pennét dalla voce italiana pendente, ed ancora sùsta o sciusta.
Ma l’elemento fondamentale era costituito dalla mappa, un copricapo di lana o di lino bianco riservato esclusivamente alle maritate, variamente ripiegato sulla testa e ricadente sulle spalle. La piegatura è una tecnica molto complessa e oggi gelosamente custodita da poche persone esperte; per i giorni feriali talvolta si ricorreva ad un sistema di piegatura, molto più sbrigativo, chiamato fasciaturo.
Bastava guardare la mappa per indovinare il paese di appartenenza di chi lo portava. Eleganza particolare raggiunsero la mappa c’ù pezzille, mappa con merletto di Campochiaro, quella di Cercemaggiore, impreziosita da un pregiato tessuto di seta rosso cardinale, quella di Macchiagodena, di forma rettangolare, quella di Venafro, decisamente signorile, consistente in una lingua retina di cotone rosso e quella di Roccamandolfi, arricchita da uno spillone d’argento filigranato. La mappa fu il segno distintivo delle donne maritate; solo in qualche località era portato anche dalle nubili ed in questo caso era il colore ad indicarne il diverso stato civile; nei giorni feriali spesso veniva sostituita dal maccaturo, cioè da quel fazzoletto che poteva essere di lino, di lana finissima, di seta semplice o damascata, anche di tulle, con preferenza per le tinte unite, bianco, celeste, rosa, paglierino. Singolare ma non frequente, era anche il modo di avvolgerlo intorno alla testa a mò di turbante, come si riscontra nell’iconografia del costume costume di Carovilli, secondo l’influsso moresco o turco mediato dagli Spagnoli.
 costume di Alfedena
Per sostenere la mappa, i capelli venivano raccolti in trecce miste a fettucce bianche di lino o di canapa ed accompagnati da cerchi imbottiti di stoppa; ai comuni spilloncini ferma-mappe, d’oro e di ottone, si aggiungevano a Cercemaggiore, Frosolone, Guardiaregia, Roccamandolfi, Sant’Elena Sannita splendidi spilloni d’argento, quasi identici nella lavorazione in filigrana, ma infilati ad una diversa altezza per ciascuno di questi paesi. Scialli e mantelline, invece, sono entrati in uso in tempi recenti; di solito di lane pregiate, ma anche di filo o lavorati a tombolo.
Una menzione particolare meritano quei costumi slavo-albanesi presenti nei paesi molisani posti sulla costa, come Ururi, Portocannone, Montecilfone (paesi albanesi), Acquaviva Collecroce e Palata (paesi slavi) e i costumi di paesi ex molisani, di origine bulgara, come Gallo Matese (ex Gallo di Prata) e Letino. E’ logico supporre che si sia verificata una “molisanizzazione” delle fogge di abiti sia degli Albanesi sia degli Slavi; nulla si ravvisa invece delle splendide gonne albanesi di Calabria negli smaglianti colori del rosso, dell’azzurro, del bianco. La seta pura è presente, così come eco dei paesi di provenienza potrebbero riscontrarsi nel corpetto rosso, nella gonna di seta e nelle babbucce di Montecilfone, nel gran fazzoletto – gunica – a quadri rossi e blu ad Acquaviva Collecroce e a Palata.
Articolo pubblicato anche su: Universitas Civium, Archeoclub d’Italia, Sede Latium Novum”, Cassino, n.VI 2002.

di Adele Rodogna (da altosannio.it)

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