Paesi a rischio di diventare borgate

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La ricetta per evitare il verificarsi di questa triste eventualità non può essere però quella di “vendersi l’anima” snaturando i paesi con la loro trasformazione in idilliaci villaggi

di Francesco Manfredi Selvaggi

23 aprile 2024

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Facendo diventare i nostri paesi “lindi e pinti” si perdono le tracce della crisi demografica ed economica conseguenza dell’emigrazione che li ha investiti. 

L’abbandono in corso è ormai un vero e proprio marchio di autenticità per un borgo, ciò che lo caratterizza. Qualcosa che ne accresce la riconoscibilità. Senza arrivare ad essere un paese fantasma, prendi Craco in Calabria, né una nuova piccola Pompei la condizione di abbandono è frequente tra i centri minori molisani. È un autentico connotato distintivo di quegli insediamenti che chiamiamo borghi, esso non fa perdere loro di attrattività, strano ma vero. I villaggi, da ora in poi li chiameremo così, sono le emergenze più significative del patrimonio ambientale molisano, gli episodi più rilevanti, addirittura un fattore identitario, per il forte legame che istituiscono con il paesaggio a sua volta il bene primario del Molise, cosa che le città allargatesi in modo abnorme hanno perso.

I villaggi rappresentano gli elementi più rilevanti dei quadri panoramici, si integrano perfettamente ai contesti paesaggistici e non deve apparire un’affermazione paradossale che essi acquisiscono un fascino superiore dalla situazione di abbandono, in fieri, in cui versano. Può sembrare una contraddizione in termini il fatto che bellezza e decadimento si associno l’una all’altro, due termini che si fa fatica a credere possano stare bene insieme, normalmente li si ritengono incompatibili fra loro, non, però, a ben pensarci, per la figura umana in cui il volto incrementa la sua avvenenza se porta impressi, o meglio se non li nasconde, i segni di una vita vissuta con le sue tribolazioni.

La crisi di tali nuclei urbani minimi rimanda alla crisi che ha investito la civiltà tradizionale, la fine di un mondo che ci è appartenuto il quale ancora ci commuove. Il depauperamento demografico dei villaggi ci sollecita riflessioni sull’emigrazione e sulla scomparsa delle attività economiche tipiche del passato, tutte cose che ci procurano emozione. Si tratta di uno sconvolgimento epocale lo svuotamento dei piccoli comuni dove prima viveva, e ha vissuto per molti secoli, la maggioranza della popolazione molisana; si è verificato un autentico “capovolgimento di fronte” nella distribuzione delle sedi insediative con gli abitanti, quelli che sono restati, che ora risiedono nelle unità urbanistiche più grandi a seguito del processo di inurbamento.

C’è chi pensa che la visione che si debba offrire ai visitatori è quella “pacificata” di villaggi semi-bucolici, minimizzando, se non occultando, almeno nei depliant propagandistici, il deterioramento, fisico e antropico, che stanno subendo questi minuscoli aggregati edilizi a causa dello spopolamento e con essi si ottiene una perdita di senso. Nell’immaginario collettivo si tende a collocare i villaggi in un inesistente Eden, per i forestieri diventano una meta turistica esotica. Dei luoghi, sempre i villaggi, talmente diversi dai quartieri residenziali contemporanei che finiscono per suscitare nei visitatori stupore un po’ come succedeva ai viaggiatori europei di fronte alle società etnografiche nelle prime esplorazioni extracontinentali.

Si guarda il villaggio avendo in mente un tipo astratto di villaggio, non si osserva il caso concreto, il villaggio, cioè, viene mitizzato. È un atteggiamento non condivisibile quello della creazione di un’immagine ideale del villaggio, non è possibile ricondurre ad una forma definita la pluralità di tipologie di villaggio che costellano il territorio regionale. Già questo, la pluralità, basterebbe a smentire l’equiparazione del borgo a un Paradiso, terrestre o celeste che sia, il quale è un luogo che si declina al singolare, non al plurale. La parte conclusiva di questo intervento, esaurite le considerazioni generali espresse fin qui e nel contempo la vena polemista che ha informato l’esposizione condotta in precedenza riguarda l’analisi delle specificità nella vasta congerie dei villaggi.

Ciò in linea con la tesi che non c’è una categoria unica capace di ricomprendere ogni singolo villaggio, di racchiudere il loro insieme. Cambia il tono, non il tema che è quello da cui abbiamo iniziato, l’abbandono (questo e non altro per economicità di discorso). Escludendo dal novero dei casi i paesi totalmente abbandonati, uno solo in verità e peraltro per causa di forza maggiore, la frana, che è Rocchetta Alta, abbiamo villaggi abbandonati per zone, Cercepiccola e Limosano per citarne due, e quelli che presentano una distribuzione random di case in degrado e sono una moltitudine.

Un fenomeno non isolato è quello del trasferimento parziale a valle in un nuovo sito, degli abitanti di agglomerati di altura che dà vita a paesi-doppi, prendi Roccaravindola Alta e Bassa, Roccapipirozzi Alta e Bassa, il toponimo docet. È interessante tale casistica perché dimostra come vedremo che l’abbandono investe sia nuovi che vecchi centri. L’insediamento che si sviluppa in piano diventa progressivamente più consistente demograficamente parlando di quello a monte arrivando addirittura al paradosso che il “borgo” che era capoluogo di Comune ne diventi una “borgata”.

Quest’ultima fattispecie ha riguardato S. Angelo in Grotte in cui un tempo vi era la sede municipale e che in seguito è diventato una semplice frazione di S. Maria del Molise, prima borgata; gli abitanti dei due distinti nuclei ora si percepiscono diversi gli uni dagli altri e non una stessa comunità. Oggi si registra un abbandono in atto anche nei centri originatisi per “partenogenesi”. Al di là degli sdoppiamenti notiamo che la diffusione di nuove casette nell’agro fa perdere alla generalità dei paesi la somiglianza con il presepe che è, poi, l’immagine iconica utilizzata nella pubblicità turistica.

(Foto: F. Morgillo-Una borgata di Spinete)

di Francesco Manfredi Selvaggi

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