Lo Zen e l’Arte di praticare il Mosaico

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Stefano Sabelli: “folgorato senza senso sulla via di Gaudì”

di Stefano Sabelli

17 aprile 2024

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"Premesso che ho sempre più cercato nella vita e nell’arte un senso in quelle cose che apparentemente non ce l’hanno, ho iniziato a mosaicare, come mi piace definire questa pratica, intorno al 2000. 
Così! Per gioco... Senza senso!"
NON HO MAI PRESENTATO DAVVERO I MIEI MOSAICI, OPERE CHE REALIZZO IN REALTÀ ORMAI DA 25 ANNI.
LO FACCIO QUI, ORA, PER LA PRIMA VOLTA, CON QUESTO LUNGO RACONTO (ognuno può leggerne a piacimento), CORREDATO DA UNA GALLERIA DI FOTO (con Titoli) DI MOSAICI CHE HO IN QUESTO FRATTEMPO REALIZZATO, FRA ROMA E FERRAZZANO.
È IL MIO "OUTING" UFFICIALE COME MOSAICISTA, MIA SECONDA E PIÙ OCCULTA ATTIVITÀ... SPERO GRADIATE!  
Folgorato senza senso sulla via di Gaudì.
 
Premesso che ho sempre più cercato nella vita e nell’arte un senso in quelle cose che apparentemente non ce l’hanno, ho iniziato a “mosaicare”, come mi piace definire questa pratica, intorno al 2000. 
Così! Per gioco... Senza senso!
O Almeno, così, forse, allora, poteva sembrare anche a me!
In realtà - folgorato sulla Via di Gaudí - i primi approcci con l’arte di decorare muri e pavimenti, assemblando tessere ricavate da piastrelle rotte, vecchi azulejos o vetri colorati, li ho avuti già a fine anni ’80. È però grosso modo fra fine e inizio millennio che la voglia irrefrenabile di spaccare, sagomare, ricomporre maioliche e ceramiche - oltre che specchi, vetri, marmi e pietre policrome - e ricavarne poi mosaici multicolori, è diventata un esercizio di stile che, da allora, ha definito molto del mio tempo. Anche come qualità di tempo vissuto.
Eva, all’epoca, aveva 12 anni e c’è una foto che ci ritrae insieme proprio mentre do inizio al primo mosaico realizzato sul terrazzo di casa a Roma, intorno a un vecchio lavandino di marmo. 
Un primo mosaico fatto di pezzi di maioliche azzurre (da bagno), pezzi di lavagna e specchi rotti. Iniziai così, senza farmi troppe domande e crearmi troppe illusioni. 
Da lì in poi, però, per quanto rimasta piuttosto occulta, fare mosaici, è diventata una vera e propria mia seconda attività. Una pratica più intima e nascosta, rispetto a quella di attore e regista, ma per tanti versi pure più libera e creativa. 
Mi ha permesso di tornare con la mente verso alcune delle mete preferite dei miei viaggi: le logge moresche e i patii dell’Alhambra a Granada o del Topkapi a Istambul; i giardini sospesi sul mare di Vietri e Amalfi; le Medine di Damasco, Marrakech o Lahore; le Moschee di Kairuan o i caffè di Sidi Bou Said, in Tunisia; i vicoli dell’Alfama a Lisbona, inseguendo il Fado, dei quartieri spagnoli a Napoli, o dei Barri di Siviglia. 
E, naturalmente, di andare… Tornare… E poi tornare ancora… al Park Güell, a Barcellona!
Luoghi che, ancora oggi, sono fonte d’ispirazione e dove ho pure spesso recuperato azulejos e mattonelle da inserire, poi, nei miei mosaici.
Mosaicare, per me, non è mai stata un’attività remunerativa, perché non ho mai realizzato un mosaico per altri o su commissione. Né così, in realtà, l’ho mai approcciata. 
È stata, però, un’attività che ha spesso dato “senso” alle mie giornate. Al mio tempo! 
Concentrato sui mosaici, ho viaggiato con la fantasia, svaporando pene d’amore, alimentando nuove passioni, risolvendo problemi economici e di lavoro. Ho superato i miei tanti infortuni, riabilitandomi da varie operazioni (soprattutto alle ginocchia). Progettato e realizzato, ancor prima nella mia testa, nuove imprese e nuovi viaggi. Fuori e dentro di me.
Essenzialmente, ho mosaicato per i luoghi che amo, dove abito e lavoro: casa mia, a Roma, e il Teatro del Loto, a Ferrazzano. Dove vivono e risiedono le mie famiglie allargate e fra loro contaminate: quella privata e quella artistica. 
Luoghi che, sì, ho forse voluto connotare di una mia impronta più specifica e identitaria. 
Ma, al contempo, non è poi questo… quel che conta!
Conta più il fatto che, dopo quasi 25 anni e dopo aver composto e incollato ormai più di 100 metri quadri di mosaici, assemblando migliaia di tasselli… Beh, certo, non posso nemmeno più dire che tutte queste opere io le abbia fatte solo per hobby, o mera passione. 
Ovvio, la passione c’è! 
Come pure la soddisfazione di creare, coi mosaici, disegni e geometrie d’ogni tipo, spesso astratte e “senza senso” ma che poi un “senso” rincorrendosi e ripetendosi all’infinito, lo trovano sempre. 
Opere nate da un intuito improvviso. Una visione tutta mia. Con, in più, l’orgoglio di donare nuova vita a materiali recuperati e che sarebbero finiti per lo più in una discarica o in compostaggi vari.
Ma appunto! 
Se ho realizzato tutto ciò è perché, per me, negli ultimi 25 anni, mosaicare, è stata una vera e propria seconda Attività. 
Far mosaici non è come disegnare o dipingere. In quel caso, ti puoi armare di tele, cartoni, matite, pennelli e sprigionare ovunque e subito la tua creatività. 
Non è nemmeno come scrivere in solitudine, nell’intimo di un tuo habitat, ovunque tu sia nel mondo. Un mosaico, richiede l’istallazione di un vero e proprio piccolo cantiere. 
Devi prima inquadrare e studiare il contesto architettonico, schizzare bozzetti, definire aree di ingombro per i materiali da conservare e poi usare. 
Sacchi di calce, stucchi e colle… Beh, certo, pure quelli te li devi caricare! 
Soprattutto, ti devi mettere a impastare con cazzuole e spatole tutta quella roba lì. 
E devi farlo il più vicino possibile a dove è messo in opera il nuovo mosaico, sapendo che lì intorno, per un po’, tutto sarà impiastrato e insozzato di schizzi di calce, detriti, polvere.
Negli anni ho recuperato, caricato e trasportato, da uno smorzo all’altro, e quasi sempre da solo e sulle mie spalle, fra Roma, Campobasso e Ferrazzano, migliaia di mattonelle di maioliche, intere come rotte, come pure marmi, pezzi di cotto, vetri colorati, specchi. 
Ho fatto la vita del trovarobe. Di chi libera e sgombra cantine! 
Viaggiando per l’Italia e il mondo, anche lì, ho recuperato piastrelle e tessere un po’ ovunque: in Tunisia; in Indonesia; in India; in Spagna e Portogallo; in Egitto; a Ischia e Vietri; in Sicilia. 
Tutta roba trasportata a mano o come capitava: in barca, in bici, in auto, in treno, in nave, in aereo. 
Tal volta, ho pagato surplus, non banali, sui voli internazionali, per aver superato il peso consentito ai miei bagagli, appesantiti da pietre e maioliche rare e varie. 
Peraltro, non ho mai voluto spedire per cargo ciò che scovavo. 
Azulejos o pannelli di ceramica, comparati magari per pochi soldi in un laboratorio artigiano di Nabeul, in Tunisia, pur se ingombranti, ho sempre voluto viaggiassero poi con me. 
Sono sempre stato un po’ geloso delle maioliche d’arte che ovunque recupero. 
Non so, perché mi piacciano così tanto! 
Eppure, per me, quelle che trovo durante i viaggi, diventano subito un bene prezioso da accudire e da cui non mi separo più nemmeno per un attimo. Anche quando il viaggio è magari ancora lungo e il ritorno a casa non prossimo, le tengo con me. 
Magari le poggio sul comodino di un albergo o di un B&B, o le lascio in vista sul cruscotto della macchina. Così posso guadarle, tenerle fra le mani, rimirarne disegni e colori. 
E già lì immagino e pregusto un nuovo gioco d’incastri, un nuovo mosaico dove inserirle. 
Le accudisco e ci entro in confidenza finché non le porto sane e salve a destinazione. 
Ovvero, a casa mia, a Roma o al Teatro del Loto, a Ferrazzano.
Ovviamente, ho viaggiato anche per studiarli i mosaici. 
Stupito dalla minuzia delle figure mitologiche e composite di quelli d’epoca romana di Piazza Armerina, in Sicilia, di Villa Adriana a Tivoli. Come pure da quelli davvero imponenti e magnifici del Museo del Bardo, a Tunisi. 
Mi hanno sempre stregato i pavimenti intarsiati come tessuti e le logge moresche dell’Alhambra, a Granada, forse il palazzo che più mi piace al mondo.
Mi sono lasciato incantare dalle policromie smaltate e dalle geometrie complesse delle Moschee e degli Hammam di Siria, Marocco, Turchia, Indonesia; per non dire delle regge moghul di Lahore, in Pakistan, con quei mosaici da Mille e una notte, tutti intarsiati di madreperla. 
Ho calcato e percorso a piedi nudi le calçadas portuguesas, i tipici marciapiedi mosaicati di Lisbona. Sono rimasto impressionato dalle Cattedrali di Aquilea e Grado e ammaliato e col naso all’insù davanti ai mosaici bizantini di Ravenna e Monreale, a Palermo. 
E poi mi sono perso, felice, fra le colonne e le panchine maiolicate del Chiostro di Santa Chiara, a Napoli, o fra le stanze del Museu Nacional do Azulejo, sempre a Lisbona. 
Ogni volta che entro in un palazzo storico, in un sito archeologico o in un museo, se scopro un nuovo mosaico o un pannello maiolicato che non conoscevo, mi prende un desiderio irresistibile di sfiorare, toccare con le mani quelle opere. Mi piace percepire sotto i polpastrelli la consistenza e i rilievi degli smalti, degli intagli di quelle piccole tessere, di pietra o maiolica che siano. 
Giacché questo desiderio, nei musei, si estende pure a statue e bronzi, naturalmente mi sono beccato, in giro per il mondo, più di una volta rimbrotti dai custodi di quei musei mentre chi viaggiava con me, si girava dall’altra parte, a far finta di non conoscermi.
Il vizio di toccare le cose belle, ahimè, non l’ho mai perso!
Davanti a mosaici e pannelli maiolicati sono spesso rimasto paralizzato dall’emozione. 
Come colto da sindrome di Stendhal! 
Naturalmente, ho visitato anche Parchi moderni, con mosaici realizzati con materiali misti e di riciclo. Come i miei.
Ogni volta che vado a Barcellona - si sarà capito! - non posso non tornare a passeggiare nel Park Güell, dell’immenso Gaudì: il mio mito. Prima vera grande fonte d’ispirazione. 
D’estate, per un weekend in Maremma, mi capita spesso di tornare al Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle, a Pescia fiorentina. 
Come pure, in Calabria, mi stordisce quel tripudio di culture mediterranee, linee geometriche e policromie rinascimentali creato da Nick Spatari, nel Parco museo di Musaba. 
A Philadelfia, a South Street, ho girato per due giorni di seguito fra i Magic Gardens di Isaiah Zagar, che è un po’ come il Basquiat dei mosaicisti. Solo che realizza opere su dimensioni enormi, avendo mosaicato strade e intere facciate di palazzi, lì, a South Street. 
Un quartiere popolare che doveva essere abbattuto e che ora, recuperato grazie ai grandi mosaici di questo incredibile artista, è diventato una delle mete più importanti dell’arte contemporanea nel Mondo, dove si tengono continue esposizioni di artisti internazionali. 
Specie questi Parchi contemporanei mi hanno appassionato così tanto ai mosaici, da stimolare in me la voglia di cimentarmi a farne. E in questo sono stato davvero un autodidatta!
Sull’esempio di Gaudì, ho così cominciato a cercare, recuperare e campionare maioliche e materiali d’ogni tipo cui ridare vita. 
Fra Roma e Ferrazzano, ormai, conservo quantità industriali di mattonelle, maioliche, pietre, marmi. Potrei in effetti mettere in opera, forse, anche il doppio dei mosaici già messi in opera. 
Come dire: ho un ricco futuro d’impasti e incollaggi davanti a me!
Al di là dell’oggettiva fatica fisica, fare mosaici è comunque un’attività creativa. 
Mi piace farli! 
Mi piace avere fra le mani vecchi azulejos, vetri soffiati, marmi spezzati cui ridare - come dire? - un senso compiuto!
Mi piace accarezzare i disegni spezzati e interrotti di vecchie maioliche decorate a mano. 
Ne ho diverse di siriane, recuperate da vecchie case distrutte da più guerre, a Damasco. 
Le più belle le ho recuperate (barattando sempre molto sul prezzo, specie per quelle rotte) nella bottega di vetri soffiati e altre amenità arabe del mio amico Joseph, sotto casa, a Via del Pellegrino. 
È stato il primo ad aver aperto, in centro, a Roma, un ristorante arabo, con narghilè, Sciàm, con belle pareti di mattoni ocra impreziosite da riquadri di maiolica. Pannelli di preziose terrecotte smaltate a mano, con Porte del Cielo dipinte con intensi blu cobalto. 
Joseph non c’è più, ma spesso penso a lui quando guardo i mosaici del Loto, impreziositi dalle maioliche fatte a mano a Damasco.
Ormai capisco anche bene la differenza fra le ceramiche industriali, di oggi, o le pre-industriali, e più raffinate, prodotte fra gli anni ‘50 e ’70, che spesso presentano piccoli rilievi nelle cotture e nelle smaltature. 
Comunque, sia quelle di pregio che quelle più anonime, se spaccate, ritagliate e poi ben inserite, trovano in ogni caso un “senso”, un’identità nuova, in un mio mosaico. 
Quando questo accade è bellissimo! 
È inebriante! Mi dà vere scariche di adrenalina. 
È quasi una libido collocare nel posto giusto un frammento di ceramica, qualunque valore in principio abbia. 
E alla fine - sì! - è come trovare un “senso” in qualcosa che, inizialmente, forse, un “senso” non l’aveva. Sempre che poi ci sia qualcosa, nella vita, in cui ci imbattiamo, che possa davvero essere considerata: “senza senso!” 
Non sono fatalista, pure ho cominciato a capire che ogni incontro, fortuito o meno, bello o brutto che sia, con persone, animali o cose, se si vuole, diventa, sempre, un’esperienza “unica” e che vale la pena vivere. Sta a noi sfidarci per mettere a frutto tali esperienze.
Per fare! Per Agire! Progredire nelle relazioni!... Evolverci, prendendo, infine, fra le mani il nostro Puzzle. Ovvero, il mosaico del nostro destino. Fatto appunto, di una somma d’incontri e esperienze.
In genere, quando comincio un nuovo mosaico, faccio pochi disegni di base, sul muro. Non do mai grandi tracce ai miei mosaici. 
Pure, ogni volta che ne inizio uno nuovo è quasi sempre permeato dall’idea di fare evolvere un Caos. Per ricomporre altro! 
Raramente, ne realizzo di figurativi. Al massimo rami, fiori, grappoli d’uva, canne di bambù… Cose così! Il resto dei miei mosaici sono soprattutto evoluzioni geometriche. Astratte.
In questo certamente ho subito un’influenza più dai mosaici arabi e mediorientali, dove c’è poco di figurativo. Realizzo stelle a 8 punte e geometrie composite, quasi sempre però partendo da tasselli di ceramica non geometrici e assolutamente irregolari. 
Forme, per lo più, astratte, appunto, a volte speculari o che si rincorrono all’infinito. 
Cose in apparenza “senza senso” ma che poi lo trovano nello spazio complessivo che riempio. E che comunque, per me, ha avuto, sempre più, senso fare… Questo è il senso!
A differenza della mia attività d’attore e regista, realizzo mosaici quasi sempre da solo. 
A parte qualche sporadico aiuto da Eva, o un pannello del LOTO, realizzato in binomio con Chiara Pazzini – amica e distributrice teatrale con la mia stessa passione – in genere, vuoi o non vuoi, pratico questo lavoro in beata solitudine. In ogni stagione e con ogni tempo. 
È una pratica che mi fa stare molto con me stesso. Ma in cui non mi sono mai sentito solo. Anzi! 
Se in Teatro, in fondo, una volta usciti di scena, l’opera svanisce e si dissolve nella sua impermanenza - insieme allo stare sul palco dell’attore - quando realizzo mosaici, beh… Qualcosa resta!
O, almeno, mi piace crederlo.
Nel tempo, tutto ciò, è come avesse acquistato una dimensione, sempre materica e evidente ma pure ancestrale. Quasi a identificare un Locus Animae. 
O, almeno, così intendo e identifico io i luoghi dove realizzo i miei mosaici. 
In realtà sono opere che – vale soprattutto per quelli del LOTO di Piazza Spensieri, a Ferrazzano - appena fatte, subito si staccano da me. Per diventare fruibili e comuni a tutti. 
E questo mi da gioia!
Far mosaici è un po’ come una meditazione. Qualcosa che apre, inaspettatamente, porte e idee sul mondo. Pure, se tutto inizia da un labirinto, in fondo... Da un Caos!
Mosaicando ho riflettuto sulla vita. Su ciò che mi da felicità, come pure sul contrario. 
È un esercizio metodico, continuo, dove non puoi e devi avere fretta. Soprattutto: non serve!
È una pratica, che però, in modo inaspettato, accende idee e riflessioni su tutto. 
Anche su cose, che non c’entrano niente con i mosaici!
Cerco di farne tesoro. Sia per la mia vita di relazione, che per quella professionale. 
Mosaicando, ho lenito ferite del passato. Ho vissuto con consapevolezza il presente. Ho coltivavo sogni per il futuro. 
È come impegnare mente e mani a districare e risolvere un puzzle che poi, però, aiuta a riannodare e rigenerare anche tanti fili persi o poco connessi della mia vita.
Idee, riflessioni su spettacoli, film, rassegne, si sono accese, d’improvviso, mentre mosaicavo. 
Ho definito interi progetti, vedendoli già ultimati nella mia mente. 
Quello del Teatro del Loto, ad esempio, è nato e si è sempre meglio definito… mosaicando. 
Se entravo in crisi o in stati d’ansia, per amori, delusioni o per qualunque cosa, il mosaico mi ha sempre riportato coi piedi a terra. 
Come pure, se sprizzo gioia e felicità, mi piace mettermi all’opera per realizzare un nuovo pannello.
È un lavoro creativo ma anche molto concreto. 
Mi da un senso pratico mosaicare, perché devo trovare soluzioni necessarie a problemi evidenti. 
Anche se, questi problemi, si limitano a pezzi di muro da riempire. 
C’è, ovviamente, una resa più materica, rispetto al fare l’attore. 
Credo, però, d’esser diventato anche più bravo come attore e regista facendo mosaici. 
Perché anche facendo mosaici devi mettere in atto una visione.
Il mosaico non mi fa perdere tempo a compiangermi quando le cose non vanno. 
Quando una scrittura non arriva. L’ansia da prestazione ti consuma. Un rapporto d’amore o amicizia non va come vorresti.
Peraltro, uso spesso il tempo del mosaico per esercitarmi. Per provare un nuovo ruolo o fare memoria, ad esempio. Ripasso di tutto e di più mentre mosaico, nuovi e vecchi monologhi, intrepreto parti, canto canzoni. 
E ho poi Sptotyfy sempre acceso sulle mie play list di rock band anni 60 e 70. 
È come ascoltare un unico grande mosaico di canzoni e musiche bellissime di tutte le più grandi Band di quegli anni: Beatles, Stones, Byrds, Cream, Blind Faith, Creedence, Jefferson Airplain e la West Coast … Anni che per me, in fondo, non sono passati mai!
Ovvio, mosaicare è altro rispetto a quello che poi faccio realmente per vivere. E che pure amo fare. 
Ma questo essere costretti a impegnarsi, fisicamente, in qualcosa di concreto, dov’è subito tangibile il frutto di quanto si è appena realizzato, mi fa stare bene. 
Sono libero di pensare, cantare e godere di… Di quel che cazzo mi pare! 
Non ho mai avuto mai troppa fretta a completare un mosaico. 
Li ho messi in opera, piuttosto, cercando di dedicare, a ognuno, il giusto tempo di riflessione e azione che ognuno richiedeva. Li ho lasciati come decantare, lievitare. Nei mesi. Negli anni. 
Senza pensarci troppo su.
Pure, quasi senza accorgermene, mi rendo conto di aver coperto ormai a mosaico diverse decine di metri quadri di pareti e spazi. 
È successo in anni! … Ma è come se avessi iniziato ieri. 
Credo sia perché, ogni volta che mi sono messo all’opera, mi sono pure sempre concentrato solo esclusivamente sui pochi decimetri quadrati da riempire. Quelli che avevo davanti agli occhi. 
Non ho mai tenuto troppo conto dei tanti metri quadri già coperti, come pure di quelli complessivi ancora da coprire. 
Ogni mosaico è stato perciò un’esperienza nuova. Sempre unica. 
Di quel determinato e specifico momento. Senza considerare né il prima né il dopo!
Un po’ come concentrare energie su un’Unità di Tempo, Spazio e Luogo di aristotelica memoria, per vivere ogni nuova creazione come una esperienza totalizzante e a sé. 
Come un nuovo ed esaltante amore! 
Solo quando ho finito un nuovo pezzo di mosaico guardo come si sposa con tutti gli altri. 
Inoltre, cerco di prendendomi cura di ogni singola tessera da inserire: piccola, grande, regolare, irregolare, insignificante o meno, che sia. 
Ogni tessera o frammento di mosaico, in fondo, mi racconta una storia. 
E a ogni tessera e frammento la racconta io.
Ho trascorso sedute anche di 10/15 ore a mosaicare. Scordandomi persino di mangiare, bere o riposare, anche solo per un po’! 
Ho mosaicato giorno e notte. Con ogni tempo e clima. Senza soluzione di continuità. Passando dal caldo torrido dell’estate al gelo dell’inverno. Dalle miti primavere ai tramonti autunnali. 
Ho mosaicato con la pioggia e con il vento (per citare una canzone). 
Sotto il sole cocente, come al buio e al freddo della notte. E ho rischiato insolazioni e geloni alle mani intorpidite, come pure artriti, bronchiti, vertigini e capogiri. 
Pure, quando inizio una seduta di mosaico, finché non sono davvero esausto, non riesco a smettere di rimestare calce, schizzarla ovunque, impastarmi mani, capelli, vestiti e, soprattutto, tagliare e inserire tessere di qualunque grandezza o spessore, provando e riprovando la loro migliore collocazione.
È un po’ come tornare bambini, quando giocavi a pallone anche per 10 ore di seguito: dal pomeriggio a notte fonda e in ogni stagione.
Anche d’inverno, per quanto usi guanti di lattice, non posso fare a meno di immergere le mani nell’acqua gelida, se serve a bagnare i miei azulejos per incollarli meglio.
Ho trascorso giorni, mesi, anni a mosaicare. E non ho mai pensato fosse tempo perso! 
Forse è stato il mio tempo più libero. Anarchico. Felice.
Non saprei fare un computo esatto ma, in quasi 25 anni, ho trascorso credo migliaia di ore a mosaicare. E tutte bellissime! 
Possono piacere o non piacere le opere che realizzo, pure, mosaicando, sono cresciuto come uomo. Ho mutato anche aspetto fisico, mettendo, nel frattempo, un po’ di capelli bianchi in più. 
Se, oggi, il mio corpo ha bisogno di maggior recupero, rispetto alle sedute estenuanti cui mi sottoponevo nei primi anni romani, comunque non si ferma davanti alla voglia di realizzare nuovi mosaici, sempre più complessi. 
Appena montati e stuccati mi piace lavarli, toccarli, parlargli. Vorrei quasi che ogni singolo tassello mi dicesse se è stato felice o meno di essere stato posizionato, proprio lì, dove infine è finito.
Non so se oggi sono più saggio. Credo, però, nel tempo, di aver affinato tecniche e occhio per le composizioni che step by step, pezzo dopo pezzo, ho fin qui realizzato. Il tempo di recupero fisico maggiore, che ovviamente ora devo concedermi, è compensato da scelte e tecniche più oculate e consapevoli, che comunque hanno ridotto i tempi di progetto e realizzazione. 
Oddio?!... Per un mezzo metro quadro di mosaico, fitto fitto, alla fine della giostra, non impiego meno di una seduta che va dalle 7 alle 9 ore. Ma insomma, ci vuole il tempo che ci vuole!
Lavorando negli intervalli di tempo fra un film, una tournee, una regia o altro da fare, per completare l’intero perimetro delle pareti del terrazzo di casa a Roma (circa 80 m2), oltre alle scale che al terrazzo portano, ci ho messo 18 anni.
La Fontana Hammam del LOTO e i piccoli mosaici a terra, interni al Teatro, iniziati nel 2005 li ho finiti nel 2007, prima dell’inaugurazione del LOTO.
Dopo l’acquisto dell’immobile del Teatro e l’inizio della sua ristrutturazione esterna, ho iniziato a realizzare anche il mosaico del Porticato, su Piazza Spensieri. 
Cominciato fra il 27 e il 28 settembre 2019 (anche lì, c’è una foto che mi ritrae con Eva, ormai cresciuta e oggi magnifica attrice e organizzatrice al LOTO), beh, quello… dopo quasi 5 anni, è ancora in corso d’opera. Ma ogni giorno in più che ci passo, si intravede anche, sempre più, la fine pure per quell’opera. Meglio, solo, per ora, non dichiarare quando davvero accadrà!
Una volta terminato (a oggi ne ho realizzato circa un 70%), si svilupperà su almeno 60 metri quadri. È un’opera che indubbiamente sta sempre più caratterizzando il Teatro del LOTO e anche Ferrazzano.
Credo siano i mosaici più belli e complessi che ho fin qui realizzato. Dove ho affinato tecniche e assemblaggi, divisione degli spazi, distribuzione di disegni e cromature. 
Con un po’ d’ironia potrei definirli: i mosaici “della maturità”
Anche se non so quanto questa parola mi si addica!
Rispetto a quelli romani, la scelta di tessere e disegni mi sembra più accurata, con un’idea compositiva, nel complesso, più evidente e unitaria e per la prima volta ho voluto dare un titolo a un mio mosaico. Un nome evocativo: #Bamboo_Blues. 
È, in realtà, il titolo dell’ultimo bellissimo spettacolo di #Pina_Bausch.
Lo vidi a Spoleto, nel 2016, proprio il giorno della sua morte, e ne fui folgorato. 
Creato come un mosaico delle meraviglie, con coreografie di assoluto talento, quello spettacolo rappresentava un’idea armonica d’incontro e incrocio di culture, fra Oriente e Occidente. 
Quello che ho sempre voluto fosse la caratteristica identitaria, anche del Teatro del Loto.
Oggi, un bosco di canne Bambù caratterizza e avvolge sempre più tutto il grande mosaico del LOTO. I Bambù, in realtà, inglobano e fanno da cornice ad altri disegni e temi sviluppati all’interno dei diversi mosaici: Fiori di Loto d’oro; Stelle di Damasco; tessiture ispirate ai Kilim; un albero coi fiori di Sakura, i fiori di ciliegio della tradizione giapponese.
Disegni orientaleggianti tipici anche dell’Art Noveu. 
Persino Arnaldo De Lisio, grande maestro molisano del primo ‘900 (cui si deve l’affresco della volta del Teatro Savoia: Il Trionfo dei Sanniti) ne ha dipinti di bellissimi, in diverse residenze storiche di Campobasso. 
Coi loro lunghi steli e i verdi tenui e opachi delle foglie, i bambù a mosaico, mischiati ai riflessi degli specchi, inseriti fra i grandi fiori di Loto e le altre opere, mi pare predispongano a un’idea inclusiva e dolce d’accoglienza. Chiunque arrivi a piazza Spensieri, o venga al Teatro si sofferma sempre più a guardarli. Credo siano diventati un’attrattiva in più per Ferrazzano. 
Come diversi altri borghi del Molise, Ferrazzano è un paese sempre più caratterizzato da un’immigrazione di donne e uomini che arrivano da tante parti del Mondo: dall’Argentina, dall’Iraq, dal Pakistan, dal Bangladesh, dal Marocco. Anche da Giappone e Australia. 
Compensano in parte lo spopolamento, questo sì, sempre più frequente, della nostra regione.
Fra le esperienze più emozionanti che ho vissuto in questi ultimi mesi, mentre realizzavo i mosaici a Ferrazzano, c’è quella di tanti di questi nuovi residenti - spesso profughi, arrivati coi barconi – che si fermano a guardare con occhi stupiti e ammirati il Porticato del LOTO. 
Per alcuni di loro, stanziare lì sotto e rimirare i miei mosaici li fa, forse, sentire più a casa. 
Riscoprono, probabilmente e in modo inaspettato, a Ferrazzano, anche loro tradizioni. 
I miei mosaici sono certo opere contemporanee e di stampo mediterraneo ma pure ispirate al mondo arabo, ai mandala indiani, piuttosto che alle figure dell’Ukiyo-e (il Mondo fluttuante) del Sol Levante.
Accade sovente che così taluni vengano a farmi compagnia mentre lavoro lì, solo soletto. 
Mi raccontano le loro storie, da dove provengono, come sono arrivati in Italia. 
Mi chiedono consigli e mi offrono piccoli e beneaccetti aiuti, passandomi magari qualche pezzo di mosaico e qualche attrezzo che spesso mi cade giù, se sono a lavorare in alto, sul trabattello. Senza costringermi così a scendere ogni volta. 
È bello ascoltarli mentre compongo quel gioco d’incastri. Un gioco che … Mi sorprende sempre!
Così come mi sorprendono gli incastri di vite e destini di tanti di questi nuovi ferrazzanesi, argentini, iraniani o afghani che siano. Gente che prova a integrarsi, con gentilezza e impegno, nei nostri paesi. 
In futuro, credo, segneranno sempre più, la sopravvivenza stessa delle nostre piccole comunità. 
Di questi “Mondi a parte” che sono un po’ diventati i borghi delle nostre aree interne - raccontati in modo assolutamente pertinente nel bellissimo film di Riccardo Milani, dedicato ai paesi spopolati delle montagne abruzzesi. Il cui destino non è diverso da quelli del Molise: “La Montagna lo sa…” Anche qua!
Un po’ davvero credo che se torneranno a vivere i nostri borghi lo dovranno soprattutto a questi nuovi arrivi. A questi nuovi residenti che portano: nuove culture; nuove conoscenze; nuovi talenti. E pure nuove economie.
Se non ci chiuderemo, e saremo piuttosto bravi ad accoglierli e a favorirne l’inserimento, diventeranno linfa vitale per le nostre comunità.
Il Loto, coi suoi mosaici, le sue opere dipinte sulle pareti, i suoi interni che esprimono un’idea sincretica di architetture sceniche d’ogni dove, vuole proprio essere un simbolo di tante culture e soprattutto di Cultura d’accoglienza. 
Dalle sue terrazze (Ferrazzano è a 850 metri sul livello del mare e quelle del Loto sono le più alte del paese), apre visioni sul mondo, per indagarlo e svelarne le complessità. Dando a chi lo frequenta possibilità di ritrovarsi, raccontarsi, condividere sogni e realtà.
Coi miei mosaici, non ho certo, mai guadagnato denari. 
Piuttosto, un po’, ne ho investiti per procurarmi i materiali per realizzarli.
Crearli, però, mi ha dato l’opportunità di dare valore ai luoghi che più amo. Quelli dove vivo e lavoro. 
Per ogni mosaico c’è sempre stata una scelta accurata e mai casuale di materiali usati. 
Un nuovo viaggio da compiere. Per dirla con Tiziano Terzani: “un altro giro di giostra”. 
Ho girato il Mondo per cercare di capire e farmi penetrare da culture diverse, inseguendo storie, visioni, bellezza. In ogni continente. 
Creare mosaici è il mio modo di restituire il frutto dei miei viaggi, delle mie esperienze, delle mie conoscenze. E ha dato ancor più senso al mio viaggiare, frequentare mercati e piccoli antiquari, dove trovare magari pezzi rari di maioliche e azulejos fatti a mano, con cui impreziosire le mie opere. Interi, smussati o già rotti che fossero, contava poco. 
Ha sempre più contato l’anima che ognuno di quei singoli o compositi pezzi mi ha trasmesso. 
Le storie che mi hanno raccontato. Le culture e le sapienze che rappresentano. 
Nell’estetica ho sempre cercato un’etica. E viceversa.
Recuperare ceramiche e terrecotte smaltate e dismesse in giro per l’Italia e per il mondo - tanto meglio se provenienti da Siria, Tunisia, Marocco, Portogallo, Spagna, India, piuttosto che da Vietri o Caltagirone - è diventato sì, un bel gioco, ma anche il mio piccolo impegno etico ed ecologico verso questo nostro vecchio e sempre più usurato Pianeta.
Fra uno spettacolo e l’altro, fra Roma e Campobasso, ho frequentato smorzi e discariche recuperando partite di ceramiche, anche di stampo industriale, che sarebbero state buttate via.
Botteghe artigiane e vetrerie mi hanno rifornito di tagli superflui di vetri colorati, usati per produrre vetrate piombate, come pure residui di specchi sbalzati o antichizzati. Specchi che poi ho pure frantumato e ridotto, ancor di più, in mille pezzi - sperando che ciò abbia avuto una funzione esorcizzante, piuttosto che il contrario! 
Certo, dove ho visto luccicare maioliche, azulejos, pietre policrome, vetri colorati, lì mi sono fiondato come un orso sul miele. 
Per scelta, ho soprattutto usato materiali destinati a discariche. Anche perché, altrimenti, avrei dovuto impegnare un patrimonio!
Pure, in tanti di questi materiali accantonati, ho trovato vere e proprie rarità. 
Pezzi unici e preziosi, con smalti e disegni realizzati a mano con grande maestria… Chissà da chi?! 
Io ho cercato di dare nuova vita a questi materiali componendo magari altro, rispetto a ciò cui erano destinati. E sono così, in qualche modo, tornati a risplendere. A riavere un posto nel mondo. 
Omnia mutantur, nihil interit – Tutto muta nulla si distrugge
Sulla Via di Gaudì, ogni mattonella di maiolica o frammento usato si è proposto a me come un prototipo “unico”, da misurare e assemblare con quello precedente e il probabile successivo. 
Un gioco d’incastri mai scontato, con cui da anni mi esercito e cui ogni volta riservo una riflessione e un’attenzione specifica e mai uguale a quella precedente. O a quella futura. 
Un grande puzzle, dove ogni singola tessera, dalla più piccola alla più grande, ha avuto bisogno di una sua specifica attenzione.
Per ogni tassello di mosaico incollato, regolare o irregolare che fosse, ho dovuto così sviluppare almeno… Un pensiero!
Sì! Almeno, un pensiero, unico e specifico, per ogni singolo tassello inserito nei miei mosaici.
Tenendo conto di tutto, per ogni decimetro quadrato di mosaico, credo di aver utilizzato una media di circa 20/25 tessere. 
In realtà, ho incollato piccolissimi frammenti, grandi come capocchie di spillo, che magari ce ne volevano 20 per fare un centimetro quadro, ma pure azulejos 10x10 cm o anche più grandi. 
Una media ponderata è dunque stimabile su tessere di circa 2/3 cm quadrati. 
Significa che, nel complesso, in quasi 25 anni, per i 100 e più metri quadri di mosaici messi in opera, avrò incollato e installato fra i 250.000 e i 300.000 pezzi. O giù di lì.
Per cui, le tessere incollate, hanno generato e sviluppato almeno 250/300.000 pensieri. O giù di lì. 
Sembra un esercizio di stile, un po’ fine a sé stesso. Ma non è così banale. 
In realtà, per ogni singola tessera usata, considerando scelta di materiali, taglio, incollaggio, mi sono obbligato a elaborare molto più di un singolo pensiero. Diciamo almeno una decina per ogni tessera. 
E quindi già saremmo ad almeno 2/3 milioni di pensieri e… Tutti Diversi!
Un frullatore di pensieri e riflessioni, concentrati su un unico obbiettivo: chiudere quel determinato mosaico, riempendo e definendo al meglio ogni singolo spazio vuoto.
Alcuni spazi da riempire rappresentano veri e propri rompicapi. È facile entrare in Loop. 
Se mi restano pochi millimetri quadrati, magari irregolari, da chiudere – che so? - con un frammento di vetro colorato e ho ormai solo pezzi più grandi di vetro, cerco di ingegnarmi a sminuzzare e sminuzzare quel pezzo più grande fino ad ottenere quello che mi serve. 
A proposito di ciò, mi torna in mente un detto con cui Orazio Costa, il mio maestro di recitazione, ci spronava e ci ammoniva per osare di più: “Da un tronco si fa uno stecchino, dallo stecchino il tronco non si fa”. 
Così anche io sgrezzo, ritaglio e sagomo, fino allo sfinimento, un “tronco di vetro”, finché non ottengo: uno “stecchino di vetro”. Quello necessario. Buttando via tutto il resto.
È sempre da un Vuoto che, comunque, anche ogni mosaico parte. 
Il mosaico va immaginato e visto in quel Vuoto. E in quel momento.
In quel KU, direbbero i Buddisti. 
È sempre il Vuoto, o almeno il suo concetto, il KU appunto, che genera una creazione.
Mettere una prima tessera nel posto giusto significa procedere poi, nel disegno complessivo, in modo coerente e più spedito. Non è sempre scontato! 
Ho imprecato e smadonnato spesso contro un pezzo che mi ritrovavo, o meno, fra le mani. 
Ho smontato e rimontato pezzi di mosaico già belli e che incollati, quando il disegno complessivo non mi soddisfaceva.
Senza contare i tagli, le ferite, le ulcere da calce che mi sono, per anni, procurato. 
Inserendo specchi e vetri rotti, più di una volta ho lavato dai mosaici il mio sangue che si è pure mischiato e rattrappito a calce e stucco. 
Tutto quell’impastare colla, spaccare e ricucire maioliche e pietre da sagomare - al più, a colpi di tenaglia - posizionando tessere ad ogni altezza possibile (quelle più complicate e scomode sono in genere quelle più in basso, a ridosso del pavimento), nel tempo, tutto ciò, ha messo a dura prova tendini e muscoli, specie di braccia, dorso e collo. 
Ho spesso passato giorni, dopo la messa in opera di un mosaico, a fare fisioterapia.
La verità è che, per me, tutte queste migliaia di tessere colorate, tutti questi incredibili puzzle da realizzare, che sono poi i mosaici, e tutti questi vuoti da riempire, che sembrano magari “senza senso”, sono in realtà… Pieni di fascino! 
È esaltante trovare la migliore soluzione per incastrare ogni nuova singola tessera, con un’altra precedentemente incollata. Sono poche le ripetizioni simili che si creano.
Un po’, è come giocare una partita a scacchi fra me e le pareti vuote e da riempire. 
Un esercizio Zen, uno potrebbe dire! O qualcosa di simile. Che produce, però, sempre qualcosa di nuovo, di bello, di inaspettato.
Da ragazzo, come tanti, ho molto amato “Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta” di Robert M. Pirsig. Quel libro è stato una sorta di Bibbia per la mia generazione.
Oggi, potrei forse immaginare una versione ad hoc: “Lo Zen e l’arte di comporre mosaici”. 
E forse qui ho già iniziato a scriverla.
Il mosaico è Arte pratica oltre che Pratica d’Arte antica, dove pazienza e tempo da concedersi diventano propedeutici all’opera stessa. 
Un po’ come cercare di vivere pienamente e con consapevolezza la Vita, godendo di ogni singolo istante che ci offre. 
A correr sempre e a non fermarsi mai, non è che la vita si goda troppo.
Se vai di fretta, non ti fermi… e non ti incanti mai… Non è il mosaico che devi fare!
Non ha senso!
 
di Stefano Sabelli

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