Anche le facciate a volte soffrono di mutismo

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Con l’International Style si nega la presenza delle facciate quale elemento di interfaccia tra il dentro e il fuori

di Francesco Manfredi-Selvaggi

26 marzo 2024

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Sono quelle in stile Razionalista, corrente architettonica che propugna l’assenza di elementi ornamentali sulle pareti esterne dei fabbricati che quindi diventano mute. Con l’International Style, evoluzione del primo, si arriva addirittura a negare la presenza delle facciate quale elemento di interfaccia tra il dentro e il fuori sostituendole con superfici vetrate, ancor di più inespressive 

C’è modo e modo di concepire il fronte di un edificio, c’è un’ampia varietà di modi. Ce ne sono di nuovissimi come è possibile riscontrare nel capoluogo regionale con i due casi che ci accingiamo a descrivere. Il primo è in via Crispi, il caso di un setto applicato ad una costruzione al di fuori della stessa, non è partecipe della struttura edilizia poiché non ha altra funzione che mascherare la presenza di una scala esterna, la quale rimane tale nonostante questa parete la quale è solo una specie di paravento. Il secondo è costituito dall’edificio destinato ad ospitare le attività parrocchiali della chiesa Mater Ecclesiae dove sul fronte principale vi sono due pannelli, uno a piano terra l’altro al primo piano, la cui superficie è lievemente ondulata; essi sono in tangenza con il volume edilizio il quale senza questi setti curvilinei sarebbe un perfetto parallelepipedo.

Siamo, comunque, ancora in ambedue gli esempi al cospetto di una facciata, seppure non nel senso classico del termine, elemento, la facciata, che è una costante nella storia dell’architettura, in qualsiasi civiltà. La facciata è sempre sembrata una cosa necessaria per un edificio, ad essa peraltro era assegnata una mansione comunicativa, la funzione di comunicare lo status, il gusto della famiglia che la abita, una comunicazione a volte involontaria. Anche il mutismo è una forma di espressione come per le dimore rurali le quali sono, nella loro semplicità, prive di apparati di abbellimento.

Per un palazzo pubblico la facciata assume un ruolo più decisamente rappresentativo chiamata com’è a conferire dignità formale alla sede istituzionale. Il Movimento Moderno rimette in discussione ogni aspetto del linguaggio architettonico e quindi anche il concetto di facciata; la versione di questo stile in cui ci imbattiamo più spesso è l’International Style che in quanto internazionale si è diffuso ovunque. Rientra in tale tendenza dell’architettura il Palazzo di Vetro, il primo fabbricato costruito secondo questi precetti a Campobasso. Esso ha una facciata la quale è sostituita da una parete vetrata.

Il vetro è composto, per piano di un’unica lastra, senza che vi siano serramenti, e ciò produce come effetto una smaterializzazione del fronte. La vetrata è evidente che sia liscia, non vi è, sempre per piano, alcun giunto che interrompa la continuità della superficie, in coerenza con, peraltro, lo spazio interno, la pavimentazione degli uffici che è una specie di tappetino in materiale gommoso e con lo spazio esterno circostante, viale Elena e via Scatolone, che è anch’esso un piano continuo perché in asfalto e non in basolato in pietra. A caratterizzare l’aspetto esteriore dell’immobile oltre al vetro vi è pure l’incorniciatura delle lastre con sottili lamine metalliche il che rimanda all’immagine del telaio in metallo per così dire faccia-vista, cioè alla messa in vista del sistema strutturale, uno dei principali dettati del Razionalismo, quello di non nascondere l’ossatura del manufatto edile, in ossequio al principio di sincerità.

Gli architetti del Movimento Moderno esibivano con orgoglio la struttura in ferro, una tecnologia moderna messa in bella mostra quasi un omaggio agli avanzamenti tecnici conseguiti dalla civiltà contemporanea, un’esaltazione della modernità. Nella stagione precedente le travi e i pilastri venivano mascherati occultandoli all’interno di una parete di fattura tradizionale e magari questa sarebbe stata rivestita con decorazioni; una sottolineatura opportuna, dato che sono entrati in gioco nel discorso, è che mascheramento e rivestimento sono due operazioni differenti, l’una si occupa di celare la struttura dell’impianto architettonico, l’altra è di completare un edificio a rustico applicando sui setti perimetrali alcuni motivi ornamentali.

Il mascheramento serve a non far vedere l’ossatura che tiene in piedi il fabbricato, con il rivestimento si può giungere a simulare in facciata una organizzazione statica diversa da quella che realmente sorregge lo stabile, vedi il disegno del “telaio a traliccio” realizzato con intonaco a rilievo nell’ottocentesco casino di Don Stefano a Isernia. Un annullamento della facciata lo si ritrova nelle palazzine del Quartiere CEP sempre a Campobasso. Molti hanno l’impressione che tali fabbricati siano una specie di “non finito”, non completati a causa del budget economico limitato ad essi assegnato, son pur sempre case popolari il che fa sì che per esse non venga previsto lo stato di finitura.

Manca infatti l’intonaco che prima o poi per contenere la dispersione del calore verrà applicato sui muri al perimetro. La messa in opera del “cappotto termico” cancellerà un carattere distintivo dell’edificato che è quello dell’assenza della facciata classica; qui si è rinunziato al rivestimento, si ritiene consapevolmente, (e anche al mascheramento) lasciando in bella vista, quasi fosse una radiografia, lo scheletro della costruzione, cioè la struttura portante fatta di travi e pilastri in c.a.. Si ottiene così l’immagine di campate, proprio come nel sistema trilitico dell’antichità, che articolano i fronti; le superfici interposte tra le componenti del telaio che nell’architettura antica vengono lasciati vuoti, in questi palazzi vengono riempiti con tamponamenti in mattoni. L’effetto è quello di una trama di elementi lineari, orizzontali e verticali, con un ritmo definito, di colore grigio, quello del cemento, che racchiude campi “pieni”, di colore rosso, quello del mattone.

(Foto: F. Morgillo-Facciate nel centro città a Campobasso)

di Francesco Manfredi-Selvaggi

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