L'autunno e i "riti" contadini della campagna

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Arnaldo Brunale è un appassionato cultore dell’affascinante mondo della tradizione contadina molisana

di Arnaldo Brunale (da quotidianomolise.com)

2 novembre 2023

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La Vigna
Un antico proverbio locale dice: Vigna e uōrte vònne vérè’ l’óme muōrte! (Vigna ed orto vogliono vedere l’uomo morto!), significando che la coltivazione della vigna e della campagna richiedono grandi sacrifici da parte del contadino. La cura della vigna, in particolare, ha sollecitato sempre una sua continua dedizione nell’intero arco dell’anno: dissodare il terreno vicino alle sue radici; concimarla nei mesi primaverili; posizionare i tralci sui filari; potarla ed eliminare i sarmenti inutili; preservarla dall’attacco dei parassiti come la peronospora. Per debellare questo dannosissimo insetto i contadini la irrorano (pumbià’ la vigna) con un antiparassitario composto da un liquido a base di calce e di solfato di rame (préta verde). Questa operazione è ripetuta più volte durante i mesi caldi affinché la vigna non secchi e non sia attaccata da altro tipo di parassiti. Le uniche iatture, a cui i contadini non possono porre rimedio con la loro esperienza, sono le grandinate improvvise e le giornate uggiose molto umide, nemiche riconosciute della vigna, soprattutto durante la sua fioritura o in prossimità del raccolto dell’uva.
Anticamente, la vigna rappresentava una vera e propria garanzia in occasione dell’acquisto di sementi o di attrezzature agricole da parte del contadino, soprattutto quando non aveva i soldi sufficienti per pagare. La vigna era una specie di cambiale per il commerciante, sia quando vendeva la sua merce a credito, sia quando prestava soldi a chi ne aveva bisogno. Il debitore si impegnava ad estinguere annualmente i debiti contratti o in corrispondenza della raccolta del grano, che gli garantiva sufficienti guadagni con la sua vendita, oppure pignorando la vigna. Con il soddisfacimento delle sue pendenze con il commerciante egli liberava anche la vigna da possibili vincoli di natura ipotecaria qualora non avesse rispettato i patti sottoscritti.
La vendemmia
Una volta la raccolta dell’uva e la vendemmia (véllegna) erano una vera e propria festa di gioia per i contadini. Questi lavori si facevano tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre cantando, nell’arco delle giornate, vecchi motivi andati perduti nel tempo. L’uva raccolta si metteva nei tini per essere pestata con i piedi. L’operazione, riservata all’uomo, consentiva di ottenere il mosto che veniva fatto fermentare (nuvéllà’) in robusti tini di legno, dopo essere stato rimescolato più volte per far scendere in fondo al recipiente le vinacce. Il vino si travasava a dicembre in grosse botti di legno o, in casi rari, a gennaio, in una giornata priva di vento con la luna calante. La prima degustazione del vino nuovo avveniva l’11 novembre (festività di S. Martino) accompagnato da una sostanziosa mangiata di castagne. Alla fine della vendemmia i nostri contadini amavano trascorrere la serata attorno ad una ricca tavolata tra abbondanti libagioni di vino genuino e ricche risate, terminando la giornata con balli al suono dell’organetto. Un saggio locale così recitava: L’acqua va a’la spalla e cu vine bbùōne la capa nén abballa! (L’acqua va alla spalla e con il vino buono la testa non balla!). Il vino prodotto era sufficiente alle strette esigenze della famiglia. Quando, però, la produzione risultava abbondante, i contadini vendevano la parte eccedente al privato facendo concorrenza alle osterie. Essi richiamavano l’attenzione della gente ponendo davanti alle loro case una botte vuota adornata da una frasca. Questo originale modo concorrenziale di vendere il vino al privato, da parte dei contadini, fece sì che per l’occasione fosse coniato dagli osti, cioè da coloro che vendevano il vino con una regolare licenza, una battuta rimasta indelebile nel tempo: U vine bbùōne zé vènne pūre senza frasca! (Il vino buono si vende anche senza frasca!). Come per dire: Ricordatevi che anche noi vendiamo il vino buono!
Anche se il progresso ha cancellato molte delle abitudini di origine contadina dei campobassani, nella nostra città ancora resiste l’abitudine della vendemmia, per cui, non è infrequente che, durante il periodo autunnale, si avverta il forte odore del mosto provenire dagli scantinati di alcune abitazioni.
La raccolta delle olive
Una volta, nel circondario di Campobasso, la raccolta delle olive aveva inizio solitamente verso il 25 novembre, in corrispondenza della festività di santa Caterina perché il frutto aveva una maturazione più lenta di quello delle altre zone molisane, come ad esempio nel basso Molise. A Santa Catarina ‘ianca o nera arécuōglie l’auliva! (A Santa Caterina con la neve o con il bel tempo raccogli le olive!). Per dare inizio al raccolto i contadini si dirigevano in campagna di buon mattino, dopo aver consumato una colazione fatta con pancetta sfritta, peperoncino e vino di casa. Il lavoro avveniva con l’aiuto delle sole mani. Il frutto era staccato dal ramo partendo dalla sua attaccatura al tronco fino alla estremità della sua punta. Questa tecnica impediva di arrecare danno alla pianta. Le olive raccolte venivano versate nel grembiule dei contadini legato a mo’ di contenitore. Una volta riempito, essi scendevano dall’albero per scaricare il contenuto in un capiente sacco di iuta, quindi ripetevano l’operazione fino alla totale spoliazione del frutto dall’albero. Il raccolto andava avanti per diversi giorni con notevole dispendio di energie. Era interrotto solo a metà giornata per consumare una colazione con pane, baccalà e peperoni fritti o, anche, con salsiccia sfritta nella sugna. La stanchezza non si avvertiva, soprattutto se le olive erano sane, cioè salve dall’attacco della mosca olearia, ed il raccolto era abbondante. Durante questa importante operazione si intonavano canti della tradizione contadina, intervallati da racconti di storie vissute dai più anziani, così le giornate trascorrevano più rapidamente. A raccolto ultimato si lasciava riposare il prodotto per alcuni giorni prima di portarlo nei frantoi (trappite) per la sua molitura.
L’olio
La lavorazione delle olive, per ottenere l’olio, era una operazione semplice ma, allo stesso tempo, delicata, che richiedeva attenzione e conoscenza dei vari passaggi da fare da parte degli addetti (trappétāre) al frantoio.
Le olive venivano prima lavate, poi versate nella màcina, dove due pesanti ruote di pietra, girando meccanicamente su sé stesse, le riducevano in un impasto molto fluido. Quantitativi del prodotto ottenuto (‘mposta) erano spalmati, a mano a mano, su dischi di canapa (vrìscule) coperti a loro volta da un altro vuoto. Queste specie di sandwich erano poggiate su supporti rotondi di acciaio fino a formare una grande pila che, alla fine, si posizionava sotto una pressa per la spremitura dell’impasto. Quest’ultima operazione consentiva la fuoriuscita simultanea dell’olio e dell’acqua che, convogliati in un unico recipiente, erano separati da un congegno meccanico che incanalava l’acqua reflua da una parte e l’olio extra-vergine in un cannello d’acciaio che lo riversava nei recipienti di vetro posizionati al di sotto di esso. L’impasto rimasto non si scartava, ma veniva sottoposto a una maggiore pressione per ottenerne olio di sanza adatto ai più svariati usi. Solo dopo questa ultima operazione l’impasto, ormai sfruttato al massimo, veniva venduto come combustibile per alimentare le stufe o i camini.

Prof. Arnaldo Brunale
NOTA BIOGRAFICA 

Prof. Arnaldo Brunale, campobassano doc, laureato in lettere moderne con indirizzo storico; studioso e docente del dialetto e delle tradizioni molisane; autore di poesie in vernacolo e in lingua; vincitore di numerosi concorsi di poesia e narrativa; già ricercatore esterno sugli studi dialettali per l’Università degli Studi di Firenze. Ha pubblicato una serie di scritti riguardanti la storia, il dialetto e i costumi campobassani. Ha in via di pubblicazione il Vocabolario Ragionato del dialetto di Campobasso (dall’italiano al campobassano).

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