Alberi monumentali e non

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Nel Molise vi è una grande diversità di specie arboree tra le quali vi sono individui particolarmente imponenti

di Francesco Manfredi Selvaggi

13 Giugno 2023

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Nel Molise vi è una grande diversità di specie arboree tra le quali vi sono individui particolarmente imponenti. Essi sono degli autentici patriarchi vegetali che nell’immaginario collettivo sono carichi di valori simbolici. 

Gli alberi monumentali si trovano generalmente in collina e in montagna, più raro è incontrarne in pianura. È difficile imbattersi in qualche pianta di grandi dimensioni in particolare quando la piana è a livello del mare, ad eccezione delle palme le quali però sono un tipo di flora esotica utilizzata a scopo ornamentale come succede a Termoli. Le ragioni dell’assenza di esemplari arborei secolari in queste zone sono quelle che con la Bonifica Agraria nei primi anni 50 si è avuto il disboscamento del Basso Molise e che l’agricoltura meccanizzata, la quale si è affermata specialmente nelle aree pianeggianti, ha imposto l’eliminazione degli alberi costituendo essi un ostacolo per i trattori.

Se non proprio il piano (ma a Venafro anche qui) nei dolci declivi che lo affiancano ci sono in diversi comprensori basso molisani (si pensi a Colletorto e a S. Giuliano di Puglia) estese superfici ricoperte di uliveti. È soprattutto, però, nel venafrano che gli ulivi sono riusciti a caratterizzare ampi tratti dei quadri paesaggistici. È un paesaggio verde tutto l’anno poiché gli ulivi non sono piante a foglia caduca o cangiante di colore e questa sua immodificabilità rimanda alla permanenza nei millenni di tali piantagioni nel subconscio: l’ulivo di Venafro era rinomato pure in epoca romana e la sua varietà ha il nome di Licinia, da Licinio, il nome di un personaggio latino (è chiamata pure Aurina per il colore dell’olio che ricorda l’oro).

È un paesaggio che non si esagera se lo si definisce eterno, connaturato con il luogo, il quale, salvo poche modifiche quali l’allargamento della statale e la costruzione del cimitero, ci è giunto intatto da epoche remote. Tra tutti i paesaggi agrari quello dell’ulivo è, di certo, il più antico. Oltre l’uliveto sono centenarie pure le piante che lo compongono e la loro longevità è testimoniata dai grossi tronchi contorti; non vi è stata, in altri termini, la sostituzione nel tempo degli alberi vetusti con nuovi.

Per tutte queste caratteristiche la Regione ha istituito il Parco dell’Ulivo. Il più maestoso è l’Olivo Elefante che sta appena fuori dai confini dell’area protetta chiamato pure l’Olivo di Pozzilli Pianta Madre, ancora vitale sebbene il suo legno si sia ormai, in parte, consumato, il quale essendo stimato avere 700 anni è l’essenza arborea di età maggiore tra i patriarchi vegetali della nostra regione. Per quanto riguarda la conservazione si è fiduciosi perché la Xylella che sta flagellando la Puglia non ha colpito il Molise.

Passiamo ora, lasciando la pianura, alla collina dove si incontrano prevalentemente querce sia a formare boschi sia a punteggiare campi coltivati. La quercia al centro dell’appezzamento agricolo è, anzi, proprio il simbolo dell’agro rurale tradizionale. Nella coltura promiscua, che è stata quella prevalente nella fascia collinare, compaiono pure gli alberi da frutto come l’enorme pero di Cercepiccola individuato dai ricercatori dell’Arca Sannita; esisteva una spinta diversificazione, che si è andata riducendo, delle piante frutticole per cui quando si parla di mele occorre specificare mela limoncella, deliziosa, ecc. oppure, lo ricorda Lina Pietravalle nel suo romanzo La Cipressa, occorre indicare il posto di provenienza, in definitiva l’habitat.

Altri alberi, questa volta pioppi o frassino, sono posizionati ai bordi delle particelle agrarie, in alternativa alle siepi. Il più rappresentativo degli alberi nei colli molisani è il Candelabro di S. Lucia, chiamato così per il suo aspetto che sta a quota di 590 metri a Castelnuovo al Volturno, una roverella nata vicino alla chiesetta di S. Lucia. Siamo ora giunti alla montagna connotata innanzitutto dalla presenza del faggio. Le faggette sono le formazioni forestali che si spingono più in alto, oltre le quali vi sono solo alcuni individui sparsi che, quasi temerariamente, senza l’appoggio di sodali sfidano le intemperie delle alte quote.

Mentre gli alberi nelle faggete si sviluppano in verticale, producendo per chi è al loro interno una sensazione simile a quella che si prova nelle chiese gotiche con gli alti pilastri, le piante che sono al di fuori di esse hanno invece un tronco massiccio e chiome larghe. I due esempi sono, per il secondo tipo, quello del Re Fajone di Vastogirardi il quale sta ai bordi del bosco di S. Nicola, la cui permanenza per 5 secoli la deve al fatto di segnarne il confine, alla stregua di una pietra miliare, e, per il primo, i Tre Frati di Guardiaregia.

Questi ultimi sono grandi sia nella circonferenza (m. 5 tanto che ci vogliono almeno 4 uomini per cingerne la base) sia nell’altezza come si conviene per dei faggi situati in una foresta; la loro sopravvivenza, l’età va dai 250 ai 400 anni, la si spiega con la volontà di impressionare i delinquenti, poiché ai loro rami furono impiccati durante la guerra al brigantaggio, subito dopo l’Unità d’Italia, 3 fratelli e lo stormire delle fronde, secondo la leggenda, è il loro pianto. Tanto il Re Fajone che i Tre Frati, va evidenziato, sono ai margini di due riserve naturali, rispettivamente l’area MAB e l’oasi WWF, e ciò rassicura sulla loro salvaguardia.

Sui monti non c’è unicamente il faggio, in quanto spesso il bosco è misto, così all’altitudine di m. 1680 troviamo uno dei 5 aceri più alti della Penisola, l’Acero di Pizzone che è un Acero, appunto Montano, anzi 2 aceri uniti insieme per 2 metri nella parte basale. Anche qui c’è una zona soggetta a protezione, il parco nazionale d’Abruzzo, e pure in questo caso la spiegazione della anzianità è fornito da un episodio leggendario, sempre legato ai briganti che strinsero un patto con il diavolo il quale impedì che le valanghe lo sradicassero.

Al contrario si può pensare, che quest’albero fu salvato poiché proteggeva dai fenomeni valanchivi come altri dalle frane. Le piante maggiormente vetuste rimangono, comunque, gli abeti bianchi di Pescopennataro, un residuo dell’ultima glaciazione. I Tre Frati e l’Acero di Pizzone vanno considerati piante maledette per quanto raccontato e sempre un’accezione negativa, ha l’albero in piazza a Cantalupo chiamato «albero della maldicenza», perché sotto l’ombrello della sua chioma le persone pettegolavano malevolmente.

Ci sono, ad ogni modo, pure alberi portatori di messaggi positivi tra i quali c’è quello di S. Maria ad Nives in prossimità di una cappella nel territorio rurale di Baranello, nel cui tronco cavo apparve la Madonna in un giorno di agosto eccezionalmente nevoso (Nives), ma specialmente la quercia che funge da basamento della statua della Madonna Incoronata, la Madonna dei transumanti, venerata in tanti comuni (Torella, Montagano, ecc.). Come si è visto, nel Molise vi è una pluralità di specie arboree che si diversificano in base al contesto ambientale, e una quantità che rende impossibile farne un censimento completo.

(Poto: M. Martusciello-Uno dei Tre Frati di Guardiaregia)

di Francesco Manfredi Selvaggi

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