Il Molise al voto (1)

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo un contributo che da punti di vista differenti, analizza la prospettiva delle imminenti elezioni regionali. In considerazione della corposità dell’articolo, lo pubblichiamo in due parti per favorirne la fruizione

di Nicolino Civitella (da ilbenecomune.it) 

25 Gennaio 2023

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Ancora qualche mese per il rinnovo del Consiglio regionale del Molise e, come ogni volta, i soggetti politici (partiti e movimenti civici) interessati a partecipare alla competizione, si apprestano a proporre il consueto spettacolo, distinto in due fasi. La prima, quella apicale, è finalizzata alla formazione degli schieramenti e si consuma, con scariche adrenaliniche senza freni fino all’ultimo secondo , tra scontri duri e manovre di mediazione, contrasti aspri e confronti serrati; poi, a giochi fatti, ossia quando accordi ed eventuali rotture hanno trovato la loro sistemazione e il livello di tensione cala o magari lascia strascichi di risentimenti e accuse velenose, si passa alla seconda fase, quella destinata a questioni d’appendice (!): programmi e proclami, propositi e promesse, modulati nell’ultim’ora all’ombra degli esiti della prima fase.

Date queste premesse, quali gli sviluppi ipotizzabili?

Nel campo del centrodestra è presumibile che la coalizione, benché giunga all’appuntamento sfinita e lacerata dalla prova di governo, non mancherà di ricomporsi, facendo leva sul collante del potere, salvo poi, in caso di vittoria, a riproporre lo stato di permanente e aspra conflittualità temporaneamente accantonata.

Nel campo del centrosinistra i percorsi si presentano più problematici. Infatti qui le forze politiche coltivano la nobile ambizione di proporsi alla guida del governo regionale disdegnando l’obiettivo del potere per il potere.

Però per corrispondere all’ambizione, esse dovrebbero avere alle spalle un cospicuo bagaglio di elaborazioni socioeconomiche e politico – culturali sulla cui base costruire programmi capaci di raccogliere e rappresentare le istanze del tessuto sociale. Ma così non è: al massimo sono rinvenibili in quel bagaglio sfilacci di elaborazione, peraltro frequentemente intrisi di spropositate venature ideologiche. Ne consegue una difficoltà a costruire un’alleanza di governo e, non potendo darne motivate giustificazioni, ciascuno corre a nascondersi dietro speciosi calcoli politici di parte. Insomma una situazione in cui, in assenza di solide fondamenta, il “particolare” tende a far premio sul “generale”, cosicché anche se l’alleanza si costruisce non è detto che, in caso di vittoria, regga alla prova del governo. E questo perché le questioni che dovrebbero essere prioritarie vengono relegate in una posizione di appendice, a cominciare da quelle di sfondo.

Provo a tracciare un rapido profilo di queste ultime, poiché ritengo che esso possa essere di ausilio nella lettura del nostro tessuto economico-sociale. Dal secondo dopoguerra in qua, la fragilità di tale tessuto ha indotto a catalogare la nostra modernizzazione come un fenomeno di natura essenzialmente passiva. Ora, ad un’attenta analisi, la fragilità, che è fuori discussione, affonda nella debolezza dei due preminenti soggetti sociali che tra Ottocento e primo Novecento occupavano la scena, ossia la borghesia agraria e il ceto contadino. Il primo, infatti, si è limitato ad esercitare una funzione di potere e non di egemonia; il secondo, a sua volta, si è gradualmente emancipato dalla condizione di servitù appagando la propria atavica aspirazione alla terra, ma l’emancipazione non ha varcato i limiti di una produzione destinata all’autoconsumo.

Cosicché col sopraggiungere della crisi economica dell’immediato dopoguerra e la successiva modernizzazione, quel sistema è letteralmente crollato, determinando non solo la fuga dei contadini, divenuti ormai in larga misura coltivatori diretti, ma anche la fuga del ceto borghese. Ne è conseguito un vuoto economico- sociale e politico-culturale con le dimensioni di un baratro. La reazione allo sfasciume è arrivata e, a promuoverla, è stato un vento di mare e non di terra. Ossia è stata essenzialmente la nuova classe politica termolese a tirare in campo le iniziative utili contrastare la deriva (tutte questioni, quelle qui evocate, che meriterebbero analisi e approfondimenti, ma questa non è la sede giusta allo scopo).

Qual è il panorama sociale che ne è venuto fuori? Certo molto mutato rispetto al passato. Ma, e questo un punto che non deve sfuggire, il nuovo panorama non genera conflittualità o dialettica economica al suo interno, così come non ne aveva generato quello precedente. (È vero che nel basso Molise ci sono state le lotte per la terra con le occupazioni dei residui latifondi: Larino Rotello, Santa Croce di Magliano, ma si tratta di fenomeni non di grande rilevanza.)

Insomma, se il panorama che si era andato costituendo in precedenza (quello costituito dal piccolo proprietario contadino) era uniforme e quindi privo di conflittualità; quello successivo non si discosta molto quanto a conflittualità, infatti esso, oltre che dei residui brandelli di ceto contadino, si comporrà di piccoli imprenditori, artigiani, piccoli commercianti, operai, professionisti che cercano occupazione preminentemente nel settore pubblico. Insomma un contesto nel quale non ci sono grandi sbalzi di posizioni reddituali. E ciò significa che sotto il profilo politico tale panorama resta essenzialmente moderato e privo di aree sociali che possono essere catalogate come proprie di destra o di sinistra. Quindi si tratta di un unico piatto omogeneo dove devono attingere gli uni e gli altri.

Ma allora, se l’humus socio-politico è unico, come si fa a distinguere le proposte?

La ridotta (o sempre più ridotta) dimensione delle nostre comunità sparse sul territorio tende a privilegiare un rapporto tra politica e cittadini di natura personale. La destra fa ampio ricorso a tale opportunità e sulla sua base raccoglie consensi quasi sempre maggioritari.

(fine prima parte)

di Nicolino Civitella (da ilbenecomune.it) 

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