Nel capoluogo rinviata la festa di S. Antonio

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La festività e il fuoco di Sant’Antonio Abate nella tradizione campobassana

di Arnaldo Brunale - fb

19 Gennaio 2023

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Vista l'inclemenza del tempo degli ultimi due giorni, rinviare la festa di Sant'Antonio abate e la relativa accensione del fuoco alla fine si sta dimostrando una buona decisione. Sperando in un miglioramento delle condizioni climatiche per sabato p.v. mi piace proporvi la lettura di un mio vecchio articolo su questa festa tanto sentita da tutti noi campuasciani.

La festività e il fuoco di Sant’Antonio Abate nella tradizione campobassana
La festa di Sant’Antonio Abate fu istituita nel V secolo d.C. dall’Abate Eutimio e fu segnata nel Martirologio Geronimiano il 17 gennaio.
Il giorno in cui si onora questo santo eremita è la prima vera festa del calendario, legata, soprattutto, al mondo dei contadini, degli allevatori e dei pastori. Essa arriva subito dopo le festività natalizie, immediatamente prima del periodo carnascialesco. Un detto locale, infatti, riferendosi alla festività di Sant’Antonio Abate, così recita: Sand’Andūone ré iēnnāre, tutte le feste arécumenzame! (Sant’Antonio di gennaio, tutte le feste ricominciamo!).
Questa ricorrenza è una delle più avvertite dai campobassani, tanto che, a giusta ragione, può essere annoverata fra le grandi celebrazioni del nostro capoluogo, probabilmente seconda, per importanza, solo al Corpus Domini.
Ci sarebbe da dire molto sull’apologia del santo nativo di Coma in Egitto, oggi Qemans presso Eracleopoli, e sul significato apotropaico del fuoco che viene acceso nel giorno del suo festeggiamento, ma questi sono argomenti che esulano dallo scopo precipuo del presente articolo. Giova ricordare solo che Sant’Antonio Abate è considerato il protettore degli animali, dei fornai, dei pastori, dei contadini e delle loro campagne, degli ustionati, ecc. È invocato, inoltre, in occasione degli incendi, delle ustioni e per le malattie dell’uomo colpito dall’herpes zoster (fuōche ‘é Sand’Andonie).
Non a caso a lui sono dedicati molti riti solenni, la cui origine si fa risalire all’antica civiltà contadina, in segno di riconoscenza per la fertilità dei campi, per la fecondità delle donne, per la protezione delle case.
Questa festività, al di là del fuoco acceso e alimentato tutto il giorno in onore del santo, nella nostra città ha perso, nel tempo, buona parte dei suoi antichi riti devozionali, delle usanze e delle tradizioni più rappresentative, pur avendo conservato inalterato il suo significato liturgico. Una volta, ad esempio, si faceva la corsa degli animali da soma che, partendo dal sagrato della chiesa al santo dedicata, percorrendo via Monforte (cambérelle), terminava in via Trento all’altezza dove oggi è allocato il Museo dei Misteri. Intorno alla chiesa non si fa più nemmeno la sfilata dei cavalli, le cui criniere intrecciate erano arricchite con piume e nastri multicolori; né si benedicono i cavalli, i buoi, gli animali da soma e da stalla, ma solo piccoli animali domestici, come i gatti, i cani, e di piccola taglia. È stata abbandonata anche l’usanza di benedire e distribuire le fruscèlle ‘é Sand’Antuōne, pagnottine di pane, a forma di stella, infarcite con ciccioli di maiale (cìcule); né si vestono più i bambini (munachiēlle) e gli adulti malati con sai indossati fino alla loro guarigione; né si procede alla bruciatura degli stessi abiti sul falò dopo il loro ristabilirsi in salute.
Una tradizione molto cara ai bambini, ormai sparita anch’essa, era quella di fargli trovare, la mattina del 17 gennaio, giocattoli e dolcini di ogni tipo. Un costume molto simile a quello siciliano del 2 novembre, in occasione della commemorazione dei defunti. Per evidenti ragioni logistiche non si ha più nemmeno l’abitudine, che risale alla notte dei tempi, del maialino (puōrche ‘è sand’Anduōne) lasciato libero di girare tutto l’anno per il rione, con appeso al collo un campanellino o con l’orecchio sinistro tagliato per far intendere alla gente che si trattava di un animale consacrato al santo, da ammazzarsi nel giorno della sua festività.
Molte consuetudini di questa festa, dunque, con il trascorrere degli anni, hanno perso l’antica ritualità di una volta o, addirittura, sono scomparse quasi del tutto come, ad esempio, quella che, in questo giorno, vedevano i contadini non montare a cavallo di nessun animale; o quella della cenere del falò, una volta spento, che veniva disseminata sui campi per preservarli dalla inclemenza del tempo e dagli incendi. Un’altra tradizione, ormai obsoleta, era quella di cospargere la testa dei bambini e degli animali con un pizzico di cenere per proteggerli dalle scottature e dall’herpes, ecc.
Al di là di queste tradizioni sparite, che si perdono nella notte dei tempi, va sottolineato che per la comunità campobassana il 17 gennaio resta, comunque, una festività molto importante che si tiene nel popolare quartiere di Sant’Antonio Abate (Sant’Anduōne Abbate), che prende il nome dall’omonima chiesa rionale, in stile barocco, edificata nel 1572. Provvede a mantenerla viva la famiglia di Nicola Mastropaolo, coadiuvata dal gruppo scout della chiesa e da alcuni volontari che, da decenni, popolano la zona compresa tra Porta Sant’Antonio e Fontanavecchia (Fundanavecchia).
Fin dalle prime ore del mattino la gente del posto provvede ad accatastare grossi quantitativi di legna per la pira da bruciare davanti al sagrato della chiesa. L’Amministrazione civica, nel rispetto di una inveterata tradizione devozionale, contribuisce all’arricchimento della catasta con un grande tronco d’albero; mentre, i fornai, i contadini ed altre categorie artigianali del posto partecipano con piccoli donativi di legna. Subito dopo le celebrazioni liturgiche del mattino, il parroco della chiesa benedice la legna prima che si accenda il falò che, poi, viene alimentato tutto il giorno fino a notte fonda.
In questa giornata festiva il campobassano (u cambuāsciāne) rispetta, da sempre, la tradizione del pranzo a base di cavatelli (cavatiēlle), conditi con un sugo fatto con la polpa di carne di maiale (carne ‘é puōrche), con la famosa “abbatina”, un tipo di salsiccia schiacciata, la cui ricetta è nota solo a pochi macellai del posto, con la ventresca (vrucculāre) e con le costine di maiale (tracchiūlélle). Ogni piatto è arricchito con abbondanti spolverate di cacio di pecora (furmagge ‘é pècura), mescolato al pepe sminuzzato grossolanamente in un mortaio (murtāre). Sulla tavola non mancano mai le fave bollite (fafe allésse) e fragranti boccali di vino rosso (téndiglia) ottenuto da un vitigno autoctono tipicamente molisano.
Anticamente, le famiglie più povere, che non potevano permettersi il ricco pranzo tradizionale, onoravano ugualmente il santo consumando un pasto più semplice preparato con bucatini insaporiti nella sugna di maiale sciolta (bbùcatine ùnde e pepe), conditi con cacio di pecora e pepe, con involtini di cotenne (cotéca) e cotennini (cutéchine), annaffiato con vino di casa e con la immancabile presenza delle fave cotte e dei ceci abbrustoliti (cīce schiāte). Era un pranzo meno nobile, comunque allestito nel rispetto del santo, per la presenza della carne di maiale fra i suoi componenti.
Solo le famiglie più devote preparano ancora la léssata, una specie di ribollita toscana, con fave (fàfe), ceci (cìce) e fagioli (fasciuōle) da consumare prima del pasto principale. Anticamente la lessata veniva data a mangiare anche agli animali come segno di protezione del santo su di essi. Non è dato sapere se, durante la cottura di questa zuppa di cereali, le famiglie intonano ancora una invocazione devozionale rivolta al santo: Sant’Anduōne a lu deserte... (Sant’Antonio al deserto...).
Una strana abitudine tutta campobassana, la cui origine è molto antica, era quella di scolare, fuori dalle abitazioni, la pasta fatta in casa. Una “usanza” che, sicuramente, doveva avere un suo preciso significato apotropaico.
Una volta, in quasi tutte le famiglie, il convivio si protraeva fino a tarda notte, tra balli, suoni di organetti (ddùbbòtte), chitarre e bufù, in attesa dell’entrata del Carnevale. Una usanza ormai desueta. Attualmente, Nicola Mastropaolo, insieme ad una piccola band del posto, intrattiene il numerosissimo pubblico, presente davanti al falò, con improvvisazioni canore (maītunate) molto divertenti.
Anticamente il pranzo rituale, che si consumava a Sant’Antonio Abate, era osservato da tutte le famiglie campobassane, eccetto da quelle dimoranti nel quartiere di San Paolo (sandépaūlane), “nemici invisi” degli abitanti del quartiere di Sant’Antonio Abate (sandandunāre) che, in risposta al loro ricco e tradizionale mangiare, opponevano ed oppongono tutt’oggi, un pranzo altrettanto ricco in cui spicca la farnata ‘é Sande Pàūle, un piatto devozionale preparato con zucca, farina di mais e brodo di maiale, consumato il 25 gennaio, ricorrenza della Conversione di San Paolo. La rivalità tra sandépaūlane e sandandunāre si evidenzia nei versi di una canzoncina che questi ultimi intonavano in dispregio dei secondi, ritenendosi a loro superiori: Chi vò vérè’ u fiōre delle donne, ché isse a Sand’Anduōne a tanémende, so’ tutte vassulélle e brunéttèlle, càpéte quāle vuò’, so’ tutte bbèlle! Chi vò’ vérè’ lu scàrte delle donne, ché isse a Sande Pàūle a tanémende, so’ tutte culacchiūte e piētte ‘nnànde, cape ré ciūcce e musse ré iūmende! (Chi vuole vedere il fiore delle donne, / andasse a Sant’Antonio a guardare, / sono tutte bassine e brunette, / scegliti quella che vuoi, / sono tutte belle! / Chi vuole vedere lo scarto delle donne, / andasse a San Paolo a guardare, / hanno tutte il sedere grande ed il petto appeso, / testa di asino e muso di cavallo!). Un altro detto, che rimarca la rivalità che da sempre esiste tra gli abitanti dei due rioni, è il seguente: ‘N Sand’Anduōne le iēte cu ‘àlle; ‘n Sand’Pàūle chécoccia e farnata (A Sant’Antonio Abate le bietole con il gallo; / a San Paolo zucca e polenta)".

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