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Chierichetto al convento di Toro

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I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise

30 dicembre 2022

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Tanto tempo fa, per quei ragazzi come me che abitavano lungo il viale che conduceva al convento, era impossibile non essere attratti dall’irresistibile richiamo di quell’affascinante luogo di culto abitato dalla piccola comunità di frati, non più di tre, con l’immancabile frate laico questuante.

Il convento non era particolarmente grande, munito di una serie di piccole disadorne celle che si intervallavano per ognuno dei quattro corridoi che, al primo piano, giravano intorno al chiostro. Nel piano terra vi era una grande cucina e una cantina e, di fronte, un refettorio col grande adiacente salone riservato per le grandi occasioni o messo a disposizione per il festeggiamento di qualche matrimonio. All'esterno vi era un grande orto e giardino, con due stalle, una a ridosso della cucina e l’altra che fungeva da pollaio e piccionaia, isolata presso il grande cipresso.

La vita che scandiva i giorni di quella comunità era semplice, dopo aver assolto agli impegni liturgici i frati si dedicavano allo studio o alla preghiera, ma anche all’intrattenimento e all’educazione dei ragazzi.

 I ragazzi più assidui partecipavano al coro per accompagnare melodiosamente le solenni novene, e nel contempo, facevano a turno i chierichetti.

Io indossai per la prima volta la cotta di chierichetto che ero molto piccolo e solo perché grazie a quel ruolo mi era consentito giocare a bigliardino o vedere la televisione, che quasi nessuno aveva in paese.

Per poter essere pronto a servire la prima messa delle sei del mattino, mi fu consentito a me e al compagno Gaetano di dormire in una delle celle vuote. Solo che ero troppo piccolo per resistere la prima notte, da solo, a sopportare le grida isteriche di un vecchio frate affetto da arteriosclerosi e, soprattutto, intimorito per la visione di un teschio posto sopra il comodino che l’oscurità del chiostro rendeva ancor più tetro. Raggiunsi poco dopo la cella di Gaetano e per alcuni anni dormimmo insieme in quella cella e insieme assolvevamo a tutte le numerose funzioni liturgiche. 

Il compito del chierichetto prima della riforma conciliare era importante perché non si limitava al puro servizio presso l’altare: era il solo preposto a recitare insieme all’officiante le formule liturgiche in latino, e dover salmodiare in quella lingua per me era un vero tormento.

Con la Quaresima, io attendevo ansioso il pio esercizio della Via Crucis, quando fra noi chierichetti si lottava per portare la pesante croce o il turibolo o una candela del piccolo corteo che sostava presso le varie stazioni.

Ma nel periodo pasquale le funzioni erano particolarmente belle e, allorchè si “legavano le campane” ci si portava per le vie del paese ad annunciare le funzioni con la "tritacca", una tavola sulla quale si facevano battere rumorosamente dei ferri ricurvi.

Subito dopo Pasqua il chierichetto accompagnava il padre guardiano per la benedizione delle case del viale del convento e per le masserie della campagna. Compito a volte arduo, quello di dover portare, per chilometri, con una mano il secchiello dell’acqua benedetta e nell’altra reggere il cesto delle uova che i contadini regalavano al frate, ma la fatica veniva ricompensata da biscotti , dolci e liquori che ci venivano offerti in abbondanza dopo la benedizione delle abitazioni.

(Foto: Vecchia foto del convento di Toro scattata dal Colle di Dio)

di Vincenzo Colledanchise

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