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Chi più inquina più incassa

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Qualcosa non va nei finanziamenti alle aziende zootecniche

da qualeformaggio.it

9 novembre 2022

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È tornata ad occuparsi di allevamenti, l’associazione ambientalista Greenpeace, e lo ha fatto dal proprio sito web, giovedì scorso 3 novembre, mettendo al centro di un nuovo articolo una mappa elaborata che invero rivela aspetti clamorosi della situazione in cui si trova il nostro Paese.
Beninteso, stiamo, anzi stanno parlando di allevamenti intensivi (è sempre bene ribadirlo) e di una mappa che svela la localizzazione di quelli italiani. A segnalarli è l’E-Prtr (Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti; letteralmente “Pollutant release and transfer register), che punta il dito sulle realtà maggiormente responsabili dell’emissione di NH3 (ammoniaca), inquinante dannoso per ambiente e salute umana. Allevamenti che – paradossalmente – hanno continuato a ricevere finanziamenti pubblici, anche nel recente passato.
Nel complesso, l’associazione ambientalista ha geolocalizzato 894 aziende zootecniche altamente inquinanti appartenenti a 722 proprietà, alcune delle quali fanno capo a gruppi finanziari come il colosso assicurativo Generali, a nomi noti dell’agroalimentare come Veronesi SpA, holding (che comprende i marchi Aia e Negroni), o a grandi imprese della zootecnia come il gruppo Cascone.
La mappa diffusa da Greenpeace con questa azione mostra che le regioni della Pianura Padana – con il 90% degli allevamenti italiani ed emissioni record di ammoniaca – sono quelle più a rischio. In testa a tutte c’è la Lombardia, dove si trova più della metà degli stabilimenti che emettono grandi quantità di ammoniaca, una sostanza che concorre in maniera importante a formare lo smog che respiriamo e che, combinandosi con altre componenti atmosferiche (ossidi di azoto e di zolfo), genera le pericolose polveri fini.

La seconda maggior causa di formazione del Pm2,5
Dati alla mano, in Italia gli allevamenti sono la seconda causa di formazione del particolato fine (responsabili di quasi il 17% del Pm2,5), più dei trasporti (14%) e preceduti solo dagli impianti di riscaldamento (37%). Mappare i luoghi in cui si trovano i maggiori emettitori di ammoniaca è quindi cruciale per sapere quanto è compromesso l’ambiente in cui viviamo, visto che l’elevata presenza di polveri fini comporta pesanti ricadute per la salute, come Greenpeace ha segnalato in un precedente studio condotto con l’Ispra (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).
Aggiornando i dati pubblicati nel 2018, l’inchiesta di Greenpeace mostra come quasi 9 aziende su 10, tra quelle che possiedono allevamenti segnalati nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-Prtr), abbiano ricevuto finanziamenti nell’ambito della Pac: un totale di 32 milioni di euro nel 2020, per una media di 50mila euro ad azienda.

Sono i finanziamenti pubblici ad alimentare le emissioni inquinanti
«Le polveri fini o Pm2,5», spiega Simona Savini, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia, «sono responsabili di decine di migliaia di morti premature ogni anno: l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha stimato quasi 50mila vittime in Italia nel solo 2019. Com’è possibile ridurre drasticamente la diffusione di queste sostanze, se, parallelamente, si continuano a finanziare i modelli zootecnici intensivi e inquinanti che le producono?».

Un monitoraggio ancora lacunoso, purtroppo
Ma attenzione, perché l’inquinamento degli allevamenti italiani svelato dall’indagine di Greenpeace è solo la punta dell’iceberg. Infatti, il Registro europeo E-Prtr riporta solo una parte delle emissioni della zootecnia, tanto che nel 2020 il 92% delle emissioni di ammoniaca prodotte dagli allevamenti non ha trovato “responsabili” nell’E-Prtr, perché non monitorato. Questa dannosa lacuna segnala l’urgenza di monitorare e regolamentare un maggior numero di allevamenti, come previsto dalla proposta della Commissione Ue di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali. Una proposta, però, che ha già scatenato violente reazioni da parte di esponenti politici e di alcune organizzazioni di categoria.

Se ne esce solo riducendo il numero di animali allevati
“Sembra”, insistono i responsabili di Greenpeace, “che si faccia finta di ignorare che gli allevamenti intensivi sono già da anni considerati attività insalubri di prima classe, e che pertanto servono misure per proteggere la salute delle persone e l’ambiente dalle loro pericolose emissioni”.
«Per farlo in modo efficace», conclude Sabini, «occorre pianificare una riduzione del numero degli animali allevati, come sta già accadendo in altri Paesi europei. Rimandare questi provvedimenti, significa ignorare gli impatti su salute e ambiente legati all’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi», e scusate se è poco.

da qualeformaggio.it

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