Quale rigenerazione culturale per le aree interne?

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Una riflessione sul rapporto che unisce rigenerazione culturale e riattivazione della coscienza di luogo, a partire dall’esperienza attualmente in corso nel piccolo comune montano di San Mauro Castelverde in provincia di Palermo

di Fabrizio Ferreri (da agenziacult.it)

16 giugno 2022

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All’interno del dossier “Coltivare Comunità” promosso da Letture Lente, il presente contributo, alla luce dell’esperienza attualmente in corso nel piccolo comune montano di San Mauro Castelverde (PA), intende riflettere sul rapporto che unisce rigenerazione culturale e riattivazione della coscienza di luogo (delle molteplici e differenti coscienze di luogo) in quanto risposta possibile a una malattia oggi molto diffusa: “la lobotomia della mente locale” (F. La Cecla, 1988).

COMUNITÀ

Determinati ambiti del discorso accademico e alcune correnti della sociologia contemporanea vorrebbero farne a meno o, appena più moderatamente, utilizzano questo termine con tale cautela da mostrarsi, in questo uso, più scettici e diffidenti che realmente convinti di un suo potenziale euristico o ermeneutico nell’interpretazione della realtà.

Eppure, chi ha esperienza di pratica e di vita nei piccoli paesi (o anche nei quartieri periferici delle città) sa benissimo che “comunità” è uno dei termini più frequenti con cui gli abitanti leggono se stessi e il loro modo di abitare i luoghi.

Espungere il termine “comunità” dal discorso analitico-scientifico rivela un’intenzione normativa: distinguere tra “buoni” discorsi (termini) e “cattivi” discorsi (termini), assumendo che il discorso accademico debba normalizzare il discorso corrente ritenuto ingenuo, “minore”.

Non credo questo sia un tracciato promettente.

Il discorso che diffida del termine “comunità” è molto più dannoso e pericoloso del discorso che vi fa ricorso. La sfida, sempre, è evitare un approccio metodologico ortopedico, con il suo risvolto accentratore e gerarchizzante, in favore della moltiplicazione dei discorsi (dei termini), delle pratiche, degli usi.

I discorsi non vanno purgati, vanno articolati, arricchiti: vanno resi complessi, non per gusto o capriccio intellettualistico, ma perché complesso è il loro referente, la realtà stessa. Della “comunità” quindi, lungi dal tagliarla fuori dall’orizzonte del discorso, dobbiamo piuttosto saperne leggere in profondità l’ampia e multiforme fenomenologia, sapendo che non si tratta di un’essenza immutabile: non è un’entità data una volta per tutte, biologicamente e/o culturalmente connotata, ma “è una chance”, afferma Magnaghi (in Becattini, 2015), è “l’atto costituente” dinamico tra le componenti socio-economico-culturali che si riconoscono nel progetto di cura e di sviluppo del luogo e che comprende tutte le energie di trasformazione a disposizione anche quando siano apportate da nuovi abitanti, esterni e/o temporanei. La comunità, dunque, è l’esito di un impegno, di un’intenzionalità e non coincide con il dato statico, rigido, fisso delle “radici”, alimentandosi anche di apporti esterni, di soggettività che possono provenire da fuori.

CULTURA

Quando parliamo di “rigenerazione culturale” di cosa si sta esattamente parlando? Di una rigenerazione attraverso la cultura? Qui c’è un fondamentale equivoco: come, infatti, quella cultura che è espressione del sistema economico e sociale che ha emarginato le aree interne potrebbe ora rigenerarle? Come potrebbe rigenerarle se anzi, al servizio del sistema economico e sociale di cui è espressione, ha offerto il proprio contributo attivo alla loro marginalizzazione?

Se intendiamo allora realmente perseguire una rigenerazione culturale dobbiamo innanzitutto puntare non a una rigenerazione attraverso la cultura ma a una rigenerazione della cultura stessa.

Solo a questa condizione la cultura può realmente essere apertura di nuove possibilità, di possibilità altre da quelle date nel contesto immediato. Diversamente, la cultura continuerà a essere uno strumento molto potente di conferma dell’ordine dato.

Come si può lavorare in favore di una rigenerazione culturale intesa in questo senso fondativo, appurato che il suo senso derivato è invece soltanto il suggello, sotto mentite spoglie, dello status quo?

Il mio suggerimento è lavorare su ciò che può essere chiamato sinteticamente “immaginario” – lavorarvi con lo scopo di liberare nuovi immaginari. Non si vuole riproporre l’opposizione stantia e datata tra l’economico e l’immaginario della controcultura degli anni ’60-’70. Anche questa opposizione configura un altro manicheismo, un altro schema binario, dove ognuno dei due termini resta chiuso nella sua rigidità, nella sua univocità. Qui “immaginario” indica invece le terze vie, la terzietà come ancoraggio al possibile che solleva da ogni riduzionistico e schematico antagonismo.

Le aree interne certamente muoiono per le infrastrutture carenti, per un mercato del lavoro contratto, per i servizi assenti, ma sotto tutto questo, la terra su cui tutto questo dovrebbe innestarsi è arida, secca: la coscienza di luogo nei vari territori del margine è quasi del tutto spenta. Si fa enorme fatica a ricostruirla e ad alimentarla. Prima ancora della leva demografica, è il meccanismo di riproduzione della coscienza di luogo a essersi inceppato. Si tratta di un black-out terribile, su cui ancora non c’è sufficiente chiarezza e attenzione. Senza una forte e salda coscienza di luogo potremmo anche portare in queste aree del Paese il lavoro, i servizi e le infrastrutture, ma non attecchiranno, non produrranno nulla, saranno magnifiche operazioni che aggiungeranno nulla a nulla, e a costi altissimi. Un borgo con il wi-fi e con maggiori e più efficienti servizi essenziali è certamente un borgo più vivibile ma non è per questo automaticamente un borgo più desiderato. Una buona infrastruttura senza anima continua a girare a vuoto.

UNA NUOVA COSCIENZA DI LUOGO

Il recupero e la riattivazione di una coscienza di luogo distribuita, multipolare, non può essere solo l’effetto di politiche pubbliche specifiche, ma passa necessariamente attraverso la produzione di nuovi immaginari, ovvero: di una nuova narrazione sui modelli di vita possibili. Possibili: cioè non straordinari, non eroici, non semplicemente resistenti.

Non si tratta di rimodellare la città sul “borgo”, sul paese, né tantomeno viceversa; si tratta piuttosto, finalmente, di dare cittadinanza e dignità a una pluralità di modi, di forme, di significati del vivere (e quindi dell’abitare). I margini non devono farsi centro né viceversa. Non si tratta di andare dalle città ai “borghi”, ai paesi, la questione non è preparare un contro-movimento. Tutti i contro-movimenti sono determinati essenzialmente da ciò contro cui si oppongono: il borgo, il piccolo comune, il paese dell’interno in questo modo continuano a rappresentare la manifestazione apparentemente divergente di un modello che continua a essere confermato proprio in forza delle sue scappatoie provvisorie. Un contro-movimento non è mai sufficiente per una trasformazione, non vi viene liberato alcun fondamento creativo o potenziale generativo.

Forme, significati, stili di vita, molteplici e non uniformi, divengono possibili soltanto fuori dall’opposizione reattiva al modello economico, sociale e culturale dominante della città: vi sarà spazio altrimenti solo per effimere comparazioni e sterili evasioni che continueranno ad assegnare ai luoghi del margine, anche e proprio nella retorica del “ritorno al borgo”, una funzione meramente subalterna e ancillare priva di futuro reale.

Servono nuovi immaginari quindi che, da un lato, rompano il monopolio di un’interpretazione univoca della città (dalla “città fabbrica” dell’era industriale alla “città smart” dell’attuale fase di capitalismo informazionale, lungo un filo evolutivo continuo) e, dall’altro, non cadano nella trappola ugualmente pericolosa di ritenere automaticamente i territori fragili e marginalizzati depositari di una qualsiasi verità perduta. Non si tratta di stilare una graduatoria di cosa sia più vero e autentico: si tratta, piuttosto, di rendere possibili forme diverse e alternative del vivere, del produrre, dell’abitare.

Non vi è una “lezione” delle aree interne da recepire e da estendere al sistema Paese. Una simile attesa o pretesa mantiene in vigore uno schema antagonistico che non consente loro alcun riposizionamento reale. Non si tratta di dare o ricevere lezioni, dal piccolo al grande, dal margine al centro o viceversa; si tratta di costruire arcipelaghi e geografie relazionali polimorfiche dove ogni luogo (forma e stile di vita, senso e significato, discorso e termine, ecc…) sia messo nelle condizioni di partecipare e contribuire con i propri caratteri di unicità.

Tutto questo non può essere operato in astratto: impegna a una strategia locale e molecolare, punto per punto, ognuno con le proprie specificità, nel segno di una miriade di pratiche singolari, contestuali, non accentrate, mosse da motivazioni immanenti e non da programmi centralizzati astratti e globali, dove l’impegno situato (place-based) configura alternative, produce nuovi possibili, moltiplica e interseca tra di loro le traiettorie locali.

Rigenerazione culturale rispetto alle aree interne potrebbe voler dire allora liberare la cultura dalla sua clausura come ambito specifico della prestazione intellettuale servile nei confronti del dato e dello status quo in favore di una cultura che non sia più un settore tra gli altri ma divenga elemento propulsivo di quella moltitudine di coscienze di luogo che da sempre costituisce l’ossatura più profonda del nostro Paese.

In un contesto territoriale contraddistinto sempre di più, da una parte, da luoghi senza coscienza, incubatori di tossicità a tutti i livelli e, dall’altra, da coscienze disperse, disorientate, del tutto disincarnate, senza luoghi, rigenerazione culturale vorrebbe dire allora riconnettere luoghi e coscienza, vorrebbe dire produrre riconoscimento e nuove appartenenze grazie alla valorizzazione di immaginari radicati, creativi, alternativi – e non semplicemente difensivi e antagonistici.

SAN MAURO CASTELVERDE

Con questo spirito, riconoscendo al rapporto tra arte e nuovi immaginari una funzione vitale, dal 2019 a San Mauro Castelverde, paese montano di poco più di mille abitanti in provincia di Palermo, noto per decenni solo per essere stato uno dei principali mandamenti mafiosi palermitani, abbiamo recuperato dopo dodici anni di sospensione lo storico premio di poesia edita Paolo Prestigiacomo trasformandolo in un Festival di poesia distribuito su tutto l’anno.

Abbiamo cominciato così a lavorare sulla figura di Paolo Prestigiacomo, poeta e scrittore maurino, allievo e amico di Palazzeschi, tra le figure più significative e meno conosciute del secondo Novecento letterario italiano.

L’opera letteraria di Prestigiacomo è diventata l’occasione e lo strumento per leggere il territorio maurino con occhi nuovi, per pensarsi da una prospettiva diversa, per guardarsi da fuori ma non attraverso un occhio estraneo. A partire da una cultura essa stessa rigenerata che ha liberato nuove percezioni di sé e del proprio luogo di vita, il lavoro sulla figura di Paolo Prestigiacomo è diventato (sta diventando) lo spazio aperto di una comunione, di un mettere e mettersi in comune: leva di auto-coscienza e di auto-costruzione (di ri-costruzione) di una comunità.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La Cecla F. (1988), Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari.

Becattini G. (2015), La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma (con un dialogo con Alberto Magnaghi).

di Fabrizio Ferreri (da agenziacult.it)

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