Le porte chiuse dei nostri paesi

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Porte chiuse non per mancanza di ospitalità, ma perché case chiuse

dì Francesco Manfredi Selvaggi

17 maggio 2022

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Purtroppo nei centri storici dei Comuni minori cresce il numero delle abitazioni rimaste vuote e di conseguenza dei portoni serrati Tali chiusure quindi non devono far pensare all’assenza di spirito di accoglienza, ma allo svuotamento dei borghi.

Scegliamo come indicatore per descrivere il fenomeno dell’abbandono dei nostri paesi, preoccupante problema delle aree interne anche molisane, quello del numero di porte chiuse. Si preferiscono le porte ad altre categorie di infissi come i balconi perché non è detto che le case li abbiano o che prospettino sulla pubblica via, oppure le prese di luce, assai belle sono quelle ad occhiello, protette o meno da grate, in quanto non tutti i fabbricati al piano terraneo sono adibiti a servizi e neanche optiamo per le finestre non essendo molte di esse dotate di scuri che qualora chiusi rivelerebbero che l’abitazione, contraddizione in termini, non è abitata.

Il numero di porte chiuse per individuare il numero di famiglie che hanno lasciato l’abitato è un parametro valido, ad ogni porta corrisponde una famiglia, quando l’oggetto dell’analisi sono i nuclei abitativi minori poiché nelle piccole unità urbanistiche il patrimonio edilizio è fatto prevalentemente da immobili unifamiliari. È negli insediamenti maggiori che si afferma il tipo architettonico plurifamiliare, vedi i 2 capoluoghi di provincia, con gli alloggi che si sovrappongono l’uno sull’altro e, peraltro, con gli stabili multipiano affiancati in maniera serrata l’uno all’altro, a costo del sovraffollamento, tanta è la forza attrattiva della polis.

Il motivo, è una spiegazione doverosa, per cui l’esame in corso si limita ai borghi e non riguarda le cittadine è perché è in essi che è più forte la tendenza allo spopolamento. Ritornando a noi diciamo che c’è porta e porta. I portoni stanno all’ingresso dei palazzi signorili, a case grandi corrispondono giocoforza porte grandi. Portone e non semplice porta quasi che una superficie edificata superiore debba di necessità avere un varco di apertura superiore (per l’evacuazione in contemporaneo delle persone che vi stazionino?).

I portoni delle “case palaziate”, così si denominavano un tempo, sono stati i primi a risultare chiusi e ciò va addebitato a 2 cause: la prima è che gli esponenti della borghesia terriera che li abitavano, una volta entrata in crisi l’economia agricola hanno intrapreso le professioni liberali le quali hanno come luogo di elezione le realtà cittadine, la seconda è che per la loro volumetria consistente sono costose da mantenere. Ulteriore variante della porta è la porticina della “stalluccia”, a sua volta variante della stalla, cioè il ricovero degli animali domestici allevati da ciascuna famiglia, che è stata chiusa, ciascuna porticina, allorché i regolamenti d’igiene hanno vietato la commistione tra esseri animali e esseri umani.

Infine, vi sono le porte delle botteghe e dei negozi, tutte chiuse in maniera definitiva, rispettivamente perché le attività artigianali odierne richiedono caratteristiche dei locali ben differenti da quelle del passato (le officine degli artigiani ora sono ubicate nei Piani per gli Insediamenti Produttivi), e il commercio di “vicinato” è stato soppiantato dalla grande distribuzione. Va notato con dispiacere, che si fatica ad intravvedere funzioni alternative per questi vani non esistendo usi per esigenze abitative contemporanee compatibili con essi anche se è doveroso, ciononostante, sperare nella ripresa delle lavorazioni artigiane tipiche le quali si ambientano bene negli aggregati tradizionali se non nelle stesse botteghe di una volta quali quelle agnonesi tipicizzate dal classico motivo di apertura della porta-finestra.

Quanto si è appena esposto è la norma, ma, come è d’uopo, vi è l’eccezione che è quella, trattandosi di spazi che stanno immancabilmente a piano terra e su strada, della trasformazione di alcuni di essi in garages allargandone la porta originaria sufficiente per far uscire l’asino, la “vettura” dell’epoca, ma troppo stretta per l’auto. Vi sono casi in cui, lo si dice per evitare errori, secondo il metodo proposto di identificare la porta con il “focolare” nel conteggio dei nuclei famigliari che sono emigrati, non è facile distinguere le porte destinate all’artigianato o alla vendita da quelle delle residenze, di frequente affiancate ad esse, in quanto spesso hanno le medesime dimensioni e i medesimi caratteri formali, l’unica distinzione è la presenza del battente, il campanello di oggigiorno; è immediata la distinzione, invece, quando si è difronte ad una struttura con scala esterna in cui l’uscio della dimora è al livello superiore.

È vero che le scale esterne sono una caratteristica tipologica delle costruzioni in campagna, ma se ne incontrano pure negli ambiti insediativi, vedi S. Massimo, che stanno a metà tra urbano e rurale. Piace riportare in conclusione, anche se non c’entra con la questione dell’esodo della popolazione, pure altre porte ormai chiuse. Vi è quella del castello che fin dal tempo della denominazione spagnola non è più adibito a sede del feudatario. Vi sono le porte di edifici di culto che nonostante siano ancora consacrati non sono più officiati (a Trivento è il caso delle chiese della Trinità e del Purgatorio che affacciano sul largo della Cattedrale il quale da sorta di platea communis si è ridotto ad essere unicamente il sagrato di quest’ultima).

Vi sono i conventi che non ospitano più comunità monastiche, esempio quello di S. Nazario a Morrone, la porta dei quali apre sul chiostro elemento distributivo centrale intorno al quale vi è una serie di aperture per accedere alle plurime sezioni che lo compongono, dunque, un ingresso centralizzato. Per fortuna che le porte urbiche non hanno, e da tanto, gli infissi altrimenti ci saremmo trovati di fronte alle porte chiuse del borgo medioevale, impossibilitati ad accedervi.

dì Francesco Manfredi Selvaggi

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