I parchi nazionali d’Abruzzo e del Matese

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Quando gli opposti si toccano

di Francesco Manfredi Selvaggi 

25 marzo 2022

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Hanno molte cose in comune, oltre al confine, meridionale per l’uno e settentrionale per l’altro, incominciando dall’essere ambedue aree protette appenniniche e continuando con il fatto che sia il primo che il secondo, in verità per questo solo potenziale, sono areali idonei per l’orso marsicano. Appartengono però a zone climatiche differenti.

Il Parco del Matese (PNM) prima ancora che veda pienamente la luce è già sovraccaricato di aspettative. Ci si attende che esso assomigli al Parco Nazionale d’Abruzzo (PNdA), come per brevità continuiamo a chiamarlo, plecaro esempio di virtù, se si può dire, in merito all’ambiente. È un confronto che non sta in piedi innanzitutto per una questione geografica la quale è quella che l’area protetta matesina, secondo la perimetrazione proposta, viene a coincidere con la superficie di un unico rilievo montano, mentre i confini del centenario Parco d’Abruzzo (cento anni fa la dizione era corretta perché non includeva porzioni di Molise e Lazio) ricomprendono due gruppi montuosi, i monti Marsicani e le Mainarde; non serve dire che da situazioni territoriali diverse discendono situazioni ecosistemiche diverse, in quelle d’Abruzzo l’ecosistema evidentemente si sdoppia, uno per ogni montagna, in quanto l’unità morfologica e il sistema ecologico sono, sempre evidentemente, interconnessi, è una faccenda di fisiografia.

Il Matese, incluso interamente nel perimetro del parco in cui sta da solo, senza coinquilini, è un comprensorio vasto e morfologicamente omogeneo, fianchi ripidi che partono dalla piana di fondovalle e si concludono nella piana, piane, di altitudine e fa qui si innalzano i rilievi sommitali con due dei quali, il Miletto e la Gallinola raggiungono le quote maggiori, aggiungendosi un ulteriore strato o fascia fitoclimatica a quelli precedenti, (una descrizione più sintetica non si può!).

Il PNdA e il PNM si differenziano anche per un’altra questione non di poco conto che è ancora di tipo ambientale, appartenendo a “eco-regioni” distinte, il primo rientrando nell’Appennino Centrale, il secondo in quello Meridionale, segmenti della catena appenninica che si differenziano per quanto riguarda la diffusione di alcune specie vegetali e animali (ad esempio certe varietà di farfalle studiate dal prof. Trematerra), il clima (continentale versus mediterraneo), ecc.

Le cose che distinguono le due aree protette non devono, però, far dimenticare ciò che le accomuna: fondamentalmente il formare insieme un esteso corridoio ecologico, reale o potenziale quale quello per lo spostamento dell’orso marsicano, esemplare faunistico in via di estinzione che necessita dell’ampliamento dell’areale per la sua stessa sopravvivenza e quindi di poter ricolonizzare il Matese dove un tempo era presente. L’intera fascia appenninica costituisce una fascia di connessione biologica la cui unitarietà sarà assicurata proprio dall’attivazione del PNM.

Qui piace ricordare, sperando di non saltarne qualcuna, le aree protette, regionali e nazionali, a partire dal Matese che si susseguono verso il Sud della Penisola lungo la sua dorsale montana in maniera continua: i Parchi Regionali campani del Partenio e dei Monti Picentini, il Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano – Monti Alburni, il Parco Nazionale dell’Appennino Lucano  – Val d’Agri – Lagronese, il Parco Nazionale del Pollino, il Parco Nazionale della Sila, il Parco Nazionale dell’Aspromonte.

Si ha il piacere di elencarli questi baluardi della difesa della natura perché meno celebrati di quelli, a cominciare dal PNdA, avendo sempre in mezzo il PNM, che si incontrano movendo verso il Nord. È ognuno di essi importate in sé, ma nel medesimo tempo importante quale tassello di un insieme, indispensabile al fine di garantire la continuità naturalistica, una visione, lo si ammette, in qualche modo, collettivistica dei parchi e, soprattutto, modernissima. Il PNdA è nato d’emblèe, dal nulla a differenza del PNM che è stato favorito per la sua nascita dalla sussistenza di preesistenti normative di tutela che investono da tempo quel territorio, dai Piani Paesistici a Rete Natura 2000.

Ambedue, pur con marchi d’origine dissimili, sono tenuti a fare i conti con sopravvenute iniziative protezionistiche portatrici di novità sostanziali nella mission del parco non contemplate nella L. 349/91; per il Matese vi sono i riconoscimenti internazionali riguardanti la Transumanza, il tratturo Pescasseroli-Candela lo lambisce alla base, e i muri a secco, diffusi nell’agro di Roccamandolfi, entrambi Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità e quelli nazionali, il recentissimo Parco Archeologico di Altilia, oltre alla proposta di inserimento del complesso montano nella lista Unesco dei Geoparchi.

Ripartiamo dalla considerazione iniziale che il PNdA contiene due emergenze orografiche con lineamenti, lo aggiungiamo adesso, propri: mentre le Mainarde come il resto dell’Appennino compreso il Matese fanno da limite fisico di regioni collocate sugli opposti versanti, l’adriatico e il tirrenico, i Monti Marsicani hanno le facce contrapposte rientranti nell’identico ambito regionale, l’abruzzese.

Seppure è vero che questi ultimi monti hanno una forte carica identitaria, capaci come sono di condizionare lo spirito dei luoghi, il genius loci, i quali, un ampio comprensorio, prendono la propria denominazione proprio da essi, la Marsica, sicuramente, hanno un superiore valore simbolico quegli altri monti, quelli del Matese che vengono sentiti quale barriera protettiva a scala regionale; bisogna dire, comunque, a proposito del massiccio matesino che non sempre è stato così cioè che esso è stato percepito in ogni epoca quale elemento “materiale” di separazione fra le comunità insediate ai suoi lati, ma, al contrario, si pensi al periodo sannita, quale spazio comune (res communis che in età contemporanea ha rischiato di diventare res nullius, di nessuno, essendo diminuite le attività antropiche in altura).

Spostiamoci, in fine, in un campo inusuale del raffronto sui parchi (in verità, neanche un simile raffronto è operazione usuale), quello dell’idrografia. Il Matese è il grande serbatoio che alimenta il Biferno e, nello stesso tempo, dal passo di Castelpetroso in direzione ovest fornisce un contributo d’acque al Volturno (uno per tutti la Rava delle Coppelle), fiume che in precedenza ha ricevuto un significativo apporto idrico dal Rio Torto altrimenti affluente del Sangro il quale nasce nel pieno del PNdA; dunque nel Volturno si mischiano acque provenienti dal PNM e dal PNdA i quali in questo modo, in qualche modo, si fondono. È una storia da raccontare: tale Rio è stato sbarrato dando vita al lago della Montagna Spaccata da cui prende avvio la serie di salti idrici funzionali alla produzione di energia elettrica, l’ultimo dei quali è quello che aziona la centrale di Colli al Volturno che ha lo scarico nel Volturno delle acque del Sangro, nota bene.

di Francesco Manfredi Selvaggi 

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