Il paese come comunità

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I paesi sono soggetti delicati, da maneggiare con cura. Il paese non è solo un borgo, è un luogo di attività e di incontro, uno spazio di vita. Bisogna dare voce alle tante esperienze progettuali che stanno animando le aree interne del nostro territorio

di Rossano Pazzagli (da agenziacult.it)

9 marzo 2022

Capire il declino per progettare la rinascita. Un corretto approccio alle aree interne e alle relative politiche dovrebbe partire da questo assunto, cioè da come si è venuta creando in Italia una grande questione territoriale, che oggi si aggiunge alla più ampia e planetaria questione ambientale. Una questione territoriale che ha il prioritario significato di uno squilibrio, non solo quello conclamato tra Nord e Sud, ma l’altro più ramificato, capillare e diffuso che si aggiunge alla storica questione meridionale: quello delle disparità che specialmente dopo la metà del Novecento si sono venute amplificando tra città e campagna, tra montagna e pianura, tra costa e entroterra.

L’analisi del declino delle tante aree rurali che sono diventate interne e/o fragili, periferie territoriali e culturali, lascia emergere la critica al modello di sviluppo capitalistico e urbanocentrico sul quale si è basata la trasformazione economica del ‘900; una critica che alcuni avevano visto, inascoltati, sul nascere: Soldati, Bianciardi, Pasolini e altri scrittori e artisti che come avviene in tante circostanze storiche riescono a vedere le cose prima degli altri: spesso prima degli scienziati e quasi sempre molto prima dei politici, riuscendo a immaginare il tempo che verrà. Una lettura che ora diventa utile per elaborare politiche attive in grado di incidere realmente al di fuori (oltre o prima) degli abusati e sostanzialmente inadatti concetti di ripresa e di resilienza: il primo perché proposto come ripresa di una linea di sviluppo interrotta (quello della triade ‘crescita-concorrenza-competitività’), mentre sarebbe necessario seguire altri sentieri; il secondo perché rischia di tradursi praticamente in sentimenti di adattamento e rassegnazione collettiva a un modello ritenuto unico e ineluttabile.

TERRITORIO E COSCIENZA DI LUOGO

La progettazione e il governo delle strategie di rinascita, richiedendo un cambio di paradigma, implicano un lavoro culturale propedeutico e di accompagnamento, inteso come iniziative, manifestazioni, formazione, eventi, ma soprattutto come messa in valore del patrimonio territoriale, di cui i beni culturali e il paesaggio costituiscono ingredienti rilevanti. La conoscenza condivisa di questo patrimonio è il primario lavoro culturale da fare ai fine del recupero di una coscienza di luogo che per decenni si è perduta nell’andar via, in quella “alluvione demografica” descritta da Lucio Gambi o ancora prima in quella “storia in discesa” che Italo Calvino utilizzò per descrivere l’abbandono delle terre alte a vantaggio delle coste e delle città [1].

Occorre chiedersi, in primo luogo: che cosa è rimasto lassù? nelle terre alte e in quelle divenute marginali, ovunque esse siano. Dico “lassù”, anche se non tutte sono in alto, come sappiamo (si pensi per esempio al Delta del Po, al Salento, alla Maremma, alle Isole ed anche ad alcune porzioni vicine ma appartate della Pianura Padana). Non c’è il niente, né il vuoto; non solo la vulnerabilità di un territorio fragile; non soltanto la desolazione e l’isolamento, ma anche un insieme di risorse di cui le aree centrali non dispongono e non possono disporre. Forse possiamo trovare lì, più o meno nascosti, anche i germi di una rinascita territoriale e morale del Paese.

La rigenerazione culturale è dunque un concetto essenziale per fare dei paesi e dei loro territori non soltanto ambiti su cui indirizzare progetti e finanziamenti esterni, ma innanzitutto per attivare processi il più possibile endogeni di rivitalizzazione comunitaria. Non ci potrà essere, infatti, rigenerazione culturale senza rigenerazione di comunità, nell’ottica di un processo biunivoco e reciproco.

Il paese è casa, il luogo dove si nasce o si vive, l’ambito dove si esprime il senso di appartenenza a una comunità. “Un paese ci vuole”, scriveva Cesare Pavese alla metà del ‘900; un paese significa non essere soli, “avere gli amici, del vino, un caffè” avrebbe cantato dieci anni dopo Mario Pogliotti nella straordinaria e quasi dimenticata avventura musicale del “Cantacronache” proprio per ricordare l’autore de La luna e i falò.

PAESI, NON BORGHI

L’Italia è, fondamentalmente, un Paese di paesi [2]. Lo rilevava già nel 1997 l’antropologo Pietro Clemente: “il paese è concetto nostro, italiano, di una società multiforme, paesana e cittadina, dallo Stato debole e dalla periferia resistente, in cui l’unità è raggiunta davvero quando – senza scandalo – si può dire che essere italiani è appartenere a un Paese fatto essenzialmente di paesi” [3].

Si tratta di un’assonanza lessicale dal duplice valore semantico che la nostra lingua consente; una rete essenziale di borghi, villaggi e contrade che da Nord a Sud popolano il territorio della penisola fin nelle valli più strette e sui più impervi crinali. È l’Italia interna, prevalentemente collinare e montuosa, vittima sacrificale di un modello di sviluppo che ha marginalizzato le zone rurali, privilegiando i grandi centri urbani, qualche tratto di costa, i poli industriali e commerciali di un’Italia che tra il 1950 e il 1970 si veniva trasformando in una nazione industriale, sempre più urbanizzata e afflitta da crescenti squilibri territoriali.

Fino ad allora il paese – anche il più piccolo – era un luogo di vita nel quale si esprimeva un comune sistema di valori, dove si intersecavano conflitto e solidarietà. Ogni paese aveva le sue tradizioni, la sua radice culturale, perfino il suo linguaggio. Poi lo spopolamento è continuato e ha preso campo l’abbandono della terra e dei paesi, con la perdita di attività produttive, la riduzione delle opportunità e la rarefazione dei servizi, tanto più forte quanto più si è affermata la logica della mercificazione di questi ultimi (quindi dei diritti), secondo la quale le comunità più piccole ne sarebbero state progressivamente private. È come se ci fossimo scordati che la stessa Costituzione ha tra i principi fondamentali proprio quello dell’uguaglianza, stabilendo che tutti i cittadini sono eguali (non che sono più o meno eguali a seconda di dove vivono, se nella città o nel paese o nella campagna) e che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza (art. 3). Abbiamo sostanzialmente seguito un percorso di sviluppo polarizzante in un Paese strutturalmente e storicamente policentrico; e ciò non poteva che generare squilibrio, disparità territoriali che sono diventate inevitabilmente anche disuguaglianze sociali. Ecco perché dicevo che bisogna capire il declino per pensare alla rinascita possibile.

Ora allo spopolamento si è aggiunta la retorica del borgo, una parola abusata, sia nella comunicazione che nel linguaggio politico. L’assenza di una prospettiva storica che consenta di collegare le cause del declino delle aree interne all’affermarsi del modello della crescita economica capitalistica rischia di vanificare o di rendere addirittura controproducenti le politiche di intervento, comprese quelle culturali. Anche il Pnrr (si pensi al piano denominato “Attrattività borghi”) parla di borghi e non di paesi. La questione non è solo terminologica perché il significato di paese è nettamente superiore a quello di borgo, che si limita alla dimensione urbanistica, definisce più il contenitore che il contenuto, mentre il termine ‘paese’ rimanda alla comunità, all’insieme di relazioni e funzioni che includono le persone, le loro attività, i loro sentimenti di appartenenza e di vicinato. La vicinanza è un valore essenziale, base della coesione sociale, spazio di gestione dei conflitti, riconoscimento comune e reciproco che influenza la sfera della dignità e della responsabilità. Il paese è un tutto, il borgo una parte. Nel paese i comportamenti individuali diventano così pratica collettiva, l’iniziativa privata si incastra sempre con la dimensione comunitaria. Anche storicamente, il borgo indicava soltanto una parte del villaggio fortificato, oppure un aggregato di case sviluppatosi nel suburbio, cioè subito fuori delle antiche mura. Perfino nel linguaggio comune, dal Nord al Sud della Penisola, quando si vuole indicare il luogo dove si nasce, dove si torna o dove si resta, si dice “paese”, non “borgo”: vado in paese, torno al paese, ecc. [4]

Accanto alla retorica del borgo occorre smitizzare quella dell’identità che non deve essere intesa come un dato immutabile, ma come un processo vitale e creativo, incessante: non è solo ciò che siamo stati, ma anche ciò che siamo e in una certa misura anche quello che vorremmo essere. Solo in questa visione non statica, ma dinamica dell’identità è possibile recuperare protagonismo e ridare voce alle comunità e ai luoghi che l’hanno perduta. Ecco perché la rinascita dei paesi non può non passare dalla cultura. Non tanto da quella accademica, lontana e distaccata, e neanche da quella mediatica di internet e della televisione, ma piuttosto da quella più vicina ai luoghi e alle persone, creativa e impegnata, generativa di cambiamento e fruibile da un pubblico vasto e reale al tempo stesso: dalle storie di comunità al riuso degli spazi pubblici, dalle specificità territoriali alle connessioni globali, dando valore alla disponibilità di spazio, al rapporto con la natura, al protagonismo individuale e comunitario, al di fuori dei modelli omologanti del tutto e subito, sempre nell’ottica della riduzione degli squilibri e delle disuguaglianze e di una effettiva centralità dei margini [5].

È necessario recuperare il senso della geografia e della storia, vale a dire la dimensione spazio-temporale, come condizione per riabitare i luoghi con consapevolezza e soddisfazione. Ma per farlo occorre riportare servizi (cioè diritti), restituire il maltolto, uscire dalla logica penalizzante dei numeri per entrare in quella della promozione del benessere collettivo (la pubblica felicità, come dicevano gli illuministi) e della sperimentazione di nuovi stili di vita.

TANTI SOLDI PER POCHI

Riuscirà l’attuazione del Pnrr nell’intento di ridurre i divari tra i territori, attenuando le condizioni di disagio dei paesi e delle campagne dell’Italia interna? A me sembra che si sia presi innanzitutto dalla necessità di spendere e di spendere presto, più che dalla elaborazione di una vera e propria strategia di intervento, da un programma calato dall’alto piuttosto che da una pianificazione partecipata dal basso, di fatto smentendo e rendendo così meno credibile l’impegno profuso con la Snai negli ultimi anni in decine di aree italiane. Ne abbiamo una prova già nel bando in atto per la presentazione di Proposte di intervento volte alla rigenerazione culturale e sociale dei piccoli borghi storici da finanziare nell’ambito della misura 2.1 “Attrattività dei borghi storici: un avviso pubblico che ha chiamato i Comuni sotto i 5.000 abitanti a presentare progetti alla svelta, in meno di 3 mesi (entro il 15 marzo), quindi difficilmente agganciati a strategie coerenti di rinascita territoriale e a metodologie partecipative delle comunità locali. Dal punto di vista delle risorse disponibili (1 miliardo di euro) si è stabilito di differenziare due linee: Una linea A riservata a 21 progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di un borgo individuato da ciascuna regione o provincia autonoma; una linea B per progetti locali di rigenerazione culturale e sociale di piccoli borghi storici, selezionati attraverso avviso pubblico, appunto, con ripartizione predeterminata delle risorse tra regioni. Appare ovvio che la maggior parte delle risorse (linea A) sarà attribuita a pochi luoghi, scelti dalle rispettive regioni, secondo la logica di creare “eccellenze” e lasciare tutto il resto nelle condizioni in cui si trova. Non è creando punti di eccellenza che si attenuano le disuguaglianze.

Quella delle aree interne italiane è una strada bella e perduta. La strada perduta è una metafora efficace del tempo che viviamo, un declino che attende una rinascita. Manca in sostanza una visione strategica, ambientale e paesaggistica da dare ai progetti, una metodologia effettivamente partecipativa senza la quale questi si riveleranno interventi episodici, non in grado di durare e di sostenere una effettiva strategia di rinascita, guidati solo dalla logica di portare a casa qualcosa e di creare qualche rara ‘eccellenza’ per poi poter dire “l’abbiamo fatto”. Inoltre, parlando di piccoli comuni, sarebbe necessario porsi sempre il problema cruciale del rapporto tra investimenti e spesa corrente, poiché senza tener conto di questo si rischia di investire in progetti che poi non reggeranno nella gestione e che quindi non saranno in grado di durare nel tempo, come del resto è già avvenuto in tanti casi, dalle varie cattedrali nel deserto ai musei, agli alberghi e altre strutture realizzate e rimaste chiuse.

COLTIVARE COMUNITÀ

I paesi sono soggetti delicati, da maneggiare con cura. Il paese è comunità, non è solo un borgo, né un buen retiro; è luogo di attività e di incontro, spazio di vita. Ecco perché è importante ridare valore al concetto di paese come comunità: perché è la rete dei paesi a definire l’identità delle regioni italiane, la pluralità dei paesaggi e delle culture. Questa rete di paesi, componente significativa della società italiana, deve essere vista e considerata nel suo insieme, non per punti, nella prospettiva di riannodare i fili tra l’Italia estesa dei margini e l’Italia puntuale delle città, di riabitare l’Italia abbandonata, trascurata e delusa [6], prefigurando sul piano culturale e politico una via da percorrere: quella di investire sui paesi, diffusi ovunque e carichi di storia, “plessi nervei” della vita italiana – come scrisse Carlo Cattaneo [7] – per un nuovo protagonismo locale nell’orizzonte globale.

Occorrerebbe, in conclusione, un concetto più avanzato e articolato della rigenerazione culturale dei territori, partendo dalle comunità: da quelle rimaste o sopravvissute, da quelle cooperative, da quelle energetiche, da quelle che andranno ricostruite e da quelle immaginate, oltre – come abbiamo detto – le retoriche del borgo e dell’identità. A questo dovrebbero ispirarsi le politiche, assumendo il valore trasformativo della cultura come leva strategica. A questo vuole tendere, intanto, il dossier “Coltivare Comunità” aperto con questo numero da “Letture lente”, nella speranza di dare voce alle tante esperienze progettuali che grazie o malgrado il Pnrr si sono venute delineando negli ultimi mesi. Per fare in modo che, al di là degli esiti del cosiddetto “bando borghi”, rimanga comunque qualcosa dello sforzo profuso nel tempo nostro dello spaesamento.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] L. Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia, vol I, I caratteri originali, Einaudi, Torino.1972; I. Calvino, Riviera di Ponente, “Il Politecnico”, n. 21, 16 febbraio 1946.
[2] R. Pazzagli, Un Paese di paesi. Luoghi e voci dell’Italia interna, Pisa, ETS, 2021.
[3] P. Clemente, Paese/paesi, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1997; Id., Un Paese fatto essenzialmente di paesi, “Dialoghi Mediterranei”, n.31, maggio 2018.
[4] R. Pazzagli, Non chiamateli borghi, sono paesi, “Il Fatto Quotidiano”, 18 settembre 2021.
[5] G. Carrosio, I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Roma, Donzelli, 2019.
[6] Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di D. Cersosimo e C. Donzelli, Roma, Domzelli, 2020.
[7] C. Cattaneo, Scritti politici, a cura di M. Boneschi, Firenze Le Monnier, 1965, vol. IV, p. 425.

di Rossano Pazzagli (da agenziacult.it)

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