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Il Centro Direzionale e Memenio Agrippa 

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Campobasso nel Molise è l’unica città che ha una Zona Direzionale

di Francesco Manfredi-Selvaggi

1 ottobre 2021

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Stiamo parlando di Campobasso e, del resto, nel Molise è l’unica città che ha una Zona Direzionale. Essenziali sono le funzioni direttive che sono quelle che richiedono competenze intellettuali senza le quali i comparti produttivi non possono operare. Il ruolo che il terziario ha avuto nella storia del capoluogo di regione.

I grandi passi compiuti dall’informatica avevano portato già da oltre un decennio all’introduzione del telelavoro per la pubblica amministrazione sancito da un apposito provvedimento normativo, il quale, però, non riusciva a decollare e c’è voluta la pandemia per far sì che esso si affermasse. Il lavoro a distanza, fattibilissimo nel terziario, renderà sempre meno necessari i grandi e piccoli “contenitori” per uffici. Previsioni urbanistiche mai attuate, seppur presenti nel piano regolatore come a Campobasso nel cui disegno è compresa una estesa Zona Direzionale tra Vazzieri e il torrente Scarafone, rimarranno sulla carta o dovranno essere ridimensionati.

In verità, alcuni pezzi hanno cambiato, di fatto, destinazione e sono diventati, di fatto, residenziali e, del resto, ciò era inevitabile in assenza di iniziative tese alla realizzazione di centri direzionali; il problema è che, comunque, per la costruzione delle residenze si sono utilizzati gli indici di edificabilità che il PRG aveva assegnato ai fabbricati per uffici i quali sono più elevati di quelli per abitazioni per fare in modo che le attività direzionali attraverso la vicinanza reciproca, magari nello stesso stabile che quindi deve essere alto, potessero aumentare il loro rendimento.

Suscitò perplessità la comparsa nel panorama cittadino un blocco edilizio di una cetra altezza e corposità (quella questione della concentrazione) in via Scardocchia subito ribattezzato ecomostro. Invece di facciate vetrate che sono tipiche degli immobili destinati a occupazioni impiegatizie vi sono pure in fondo a via Vico prospetti arricchiti con balconi e ciò non deve meravigliare in una città come la nostra dove nell’ampliamento, non molto tempo fa, della sede dell’Amministrazione provinciale, troviamo terrazze. Gli enti pubblici non hanno pensato minimamente a trasferirsi lì, nemmeno la Regione nel suo lungo peregrinare alla ricerca di un sito per i propri palazzi, dal villino Santoro in via XXIV Maggio all’ex Romagnoli e, infine, a via Genova, non ha mai valutato seriamente l’opportunità di collocarsi qui se non nel corso delle trattative della procedura del project financing per la sua sede, quando le venne proposto di acquisire le torri allora in costruzione fra via Manzoni e la Tangenziale Est quale sistemazione provvisoria.

I privati neanche a parlarne; mentre a Isernia vi è stata una iniziativa in tal senso con l’edificazione da parte di un gruppo imprenditoriale a S. Leucio nel cosiddetto centro commerciale, un grande edificio destinato a negozi e a servizi del terziario da vendere o da affittare, nel capoluogo regionale non vi sono state aziende che hanno trovato conveniente posizionarsi in questa Zona, nonostante sia quella urbanisticamente deputata.

La nostra Zona ad indirizzo direzionale, in definitiva, non è mai partita con nocumento, questo è certo, di tutto l’ambito di espansione urbana contenuto nella pianificazione comunale a valle della ferrovia, si pensi agli interventi edilizi di via Pirandello ai quali è venuto a mancare l’appoggio che ci si sarebbe aspettati dalle attrezzature sociali e commerciali (una piazza?) che sarebbero potute nascere a supporto di quelle direzionali; essa, separata dal resto della città dalla stazione dei treni con i binari che costituiscono un ostacolo insormontabile, soffre una condizione di isolamento e la passerella pedonale sopraelevata che raggiunge il parco ferroviario sembra un semplice palliativo.

La mancata attuazione della Zona Direzionale significa la mancata infrastrutturazione funzionale del presente settore del contesto cittadino, ma pure la mancata decentralizzazione almeno in parte, delle numerose realtà terziarie che affollano il centro civico, causando problemi di traffico. Se non fosse che la questione che attanaglia la “capitale” del Molise, e del Molise stesso, di conseguenza, oggi è quella dell’arretramento del sistema economico, del quale il terziario è una componente significativa e per il cui ipotizzato incremento al momento del varo dello strumento pianificatorio, eravamo negli anni del boom, la Zona Direzionale era stata dimensionata diventando alla luce della situazione attuale, sovradimensionata.

Un inciso, lungo, che val la pena inserire adesso, è che Campobasso è stata alternativamente soggetta a fasi di crescita e di declino: con Cola di Monforte essa divenne il cuore di un ragguardevole raggruppamento di feudi, i possedimenti di questa casata nobiliare, e successivamente anche in ragione della preminenza acquisita nel circondario, vi venne istituita la Doganella per il controllo della transumanza, una congiuntura favorevole per la città che proseguì con gli spagnoli che ne fecero uno dei 7 mercati del grano del vicereame (Fondaco della Farina).

Con l’avvento degli austriaci che posero sul trono partenopeo il primo esponente della dinastia borbonica il Mezzogiorno iniziò il suo declino, nonostante lo spirito riformatore di Carlo III, che prima era stato la maggiore fonte di ricchezza del regno di Spagna, sopravanzando addirittura la madrepatria e con esso si ridimensionò pure il ruolo di Napoli; quest’ultima era un enorme agglomerato improduttivo alimentato dalle derrate granarie, perché, comunque, ne era la “testa”, in ossequio alla teoria di Memenio Agrippa, quella dello stomaco e delle braccia, provenienti dalle sue provincie.

I francesi soppressero i tratturi, un fattore concominate che spiega la perdita di status di Campobasso, e quasi quale compensazione la designarono quale capoluogo della novella Provincia di Molise. Di qui prese avvio la sua funzione amministrativa, la sua terziarizzazione, che si incrementò decisamente a seguito dell’Unità d’Italia volendo il nuovo Stato unitario affermare con i suoi uffici la sua presenza nelle periferie. Come si vede, la lunghezza della digressione è giustificata a pieno spiegando l’origine di Campobasso, in passato polo di commerci e di artigianato (l’acciaio lavorato e il vasellame), come città terziaria.

Se a quanto detto nell’excursus fatto sopra, il quale invece che inciso come lo abbiamo chiamato va definito più correttamente preambolo per quanto segue, si aggiunge che, appoggiandosi al Borgo Murattiano da poco fondato, il governo centrale, sarebbe maggiormente appropriato definirlo centralizzante per il carattere accentratore cui si è accennato, procedette alla costruzione di architetture, non si usa il temine fabbriche in quanto opere decorose, degne di ospitare le istituzioni che lo rappresentano, come è in voga pure oggi, sul territorio, cioè le varie amministrazioni statali e anche quelle provinciali e comunali.

Di tutto quanto detto, ai fini del nostro ragionamento, si sottolineano ora due aspetti. Il primo è che si svuota il centro storico, l’apparato pubblico che invero con i Borboni era assai debole, rinnovato trasmigra nel Nuovo Borgo fra l’altro velocissimamente oltre che totalmente, e la seconda che quest’ultimo, attualmente il centro della città sopravanzando quello antico il quale va in uno stato di necrosi, si popola di opere architettoniche di una certa qualità, rappresentative della nazione nelle sue differenti articolazioni.

Ad esse si aggiunsero, si pensi il Banco di Napoli, le sedi periferiche di enti nazionali di natura privatistica, altrettanto dignitose e far traslocare ogni cosa nella Zona Direzionale se mai lo si fosse pensato, non sarebbe vantaggioso per l’immagine urbana, bella proprio per tali presenze. L’ultima fase di ripresa di Campobasso è legata alla creazione della Regione in qualche modo in contropartita all’emigrazione, forte nel 2° dopoguerra, che però, lo si è rimarcato, non si è ancora autorappresentata adeguatamente nella struttura urbanistica.

di Francesco Manfredi-Selvaggi

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