La primissima incombenza lavorativa

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I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise

1 maggio 2021

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Eravamo alla fine degli anni cinquanta. Lungo il fiume Tappino si stava realizzando, con le risorse della Cassa del Mezzogiorno, la strada che ci avrebbe collegati celermente con la Puglia, sfruttando in gran parte l’area del Tratturo, che proprio in quegli anni vedeva terminata, dopo secoli, la sua funzione di via delle greggi in transumanza tra l’Abruzzo e le Puglie.
Mio padre, come altre decine di uomini del paese, fu assunto dalla Ditta Zaccherini, che aveva avuto in appalto la costruzione dell’opera, consentendo di arrestare l’emorragia di uomini verso l’estero, per l’endemica emigrazione cui erano soggetti.
A causa delle precarie condizioni di salute, mio padre non venne assunto come semplice manovale, bensì come ingrassatore e rifornitore alle ruspe, di conseguenza egli si rapportava continuamente coi ruspisti che provenivano tutti da San Benedetto del Tronto.
Avevo meno di dieci anni e potei godere anch’io della amicizia di quei ruspisti, che a volte mi consentivano salire sui loro mezzi per sbalordirmi nel divellere vecchi manufatti.
Si lavorava pure la domenica fino a mezzogiorno, ed io avevo l’incarico di raggiungere mio padre col mulo, presso il cantiere a ridosso del fiume, con la vettura l’avrei riportato in paese per la ripida salita, fino alle Pagliarole, dove avremmo attinto il foraggio per gli altri animali domestici che avevamo nella stalla sotto casa.
Assolsi a quell'incombenza tutte le domeniche durante l'attività del cantiere nell'agro torese.

(Foto: mio padre con mio fratello Angelo.)

di Vincenzo Colledanchise

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