Il Matese, una montagna multistrato

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Gli strati principali sono due, quello sotterraneo con le famose grotte e quello in superficie. Quest’ultimo può essere suddiviso a sua volta in due strati, quello che comprende le vette e quello degli altopiani in cui si trova Campitello

di Francesco Manfredi Selvaggi  

21 aprile 2021

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Può sembrare un qualcosa di eccentrico avvicinarsi all’esame della montagna, in verità solo di alcuni suoi aspetti, partendo dall’alto, dalla cima; è un modo opposto a quello cui siamo abituati, a quello dell’esperienza comune, di osservare il rilievo iniziando dal basso. Pare appropriato cominciare dalla cima semplicemente se si pensa che l’umanizzazione di questo territorio, privo in passato, prima dell’avvento della stagione dello sci, della presenza antropica, frequentato solo da pastori, boscaioli e da pochi pionieri dell’escursionismo, ha preso avvio proprio da lì.

Monte Miletto è sormontato da una grande croce di ferro la quale oltre ad essere un simbolo religioso equivale quasi ad una bandierina piantata, come nelle esplorazioni ai Poli, per indicare che si è raggiunto il traguardo il quale è davvero prestigioso trattandosi della vetta più elevata dell’Appennino centro-meridionale (più a sud c’è il Pollino). La sommità di questo monte è anche uno dei luoghi più interessanti dell’intero massiccio per la ben distinguibile traccia lasciata dal ghiacciaio, il classico circo glaciale, formatosi nel quaternario; la sua lingua o coda, come è successo per tutti gli altri della medesima era geologica, non arrivò a raggiungere il fondovalle, ma si dovette arrestare nel piano appena più sotto, per intenderci il pianoro di Campitello.

Quest’ultimo quindi può essere letto, figurativamente, quale lunga depressione sotto il peso del deposito di ghiaccio e dell’ammasso di terra trascinato con sé scivolato dal cosiddetto anfiteatro nel quale la neve ghiacciata e i detriti erano accumulati, tra la dorsale che congiunge Colle Tamburro a m. Miletto, da un lato e le Tre Finestre da quello opposto. Campitello è una grande conca che in periodo primaverile a volte si trasforma in un lago temporaneo; in ciò si distingue dalle doline l’estensione delle quali è proporzionata all’inghiottitoio che ne è al centro, a differenza di questa piana dove è decentrato e appare insufficiente a far defluire le acque velocemente.

Quello descritto è lo scenario in cui ci muoviamo, dal punto di vista naturalistico. Ai margini di questo spazio quasi pianeggiante che è Campitello negli anni 70 sorge una importante stazione di sport invernali la quale è il segno più forte della conquista, da parte dell’uomo del territorio montano di cui la croce citata rappresenta, per certi versi, il segnale della sua prossima avanzata. In verità, vi è pure un altro indizio della nascita dell’interesse umano verso il comprensorio matesino che è il rifugio, adesso ridotto a rudere, collocato nella zona sommitale, appena più in basso e coevo della croce, costruito dalla Società Alpinistica Meridionale verso la fine del XIX secolo.

Nella chiave di lettura proposta esso è un avamposto che annunzia l’avvento degli umani in quota. Di maggiori dimensioni è quello edificato in seguito a Campitello il quale è ancora il cuore di questa località turistica. Dopo circa 150 anni appare conclusa la fase della presa di confidenza della nostra civiltà con il Matese, ma non è così perché c’è tanto ancora di inesplorato. È la parte di scoperta dell’ambiente più difficile in quanto non è in superficie, quindi facilmente visibile, bensì nascosta nelle, per così dire, viscere del complesso montuoso.

Vale sempre, è opportuno sottolinearlo, l’incipit che la via scelta per la conoscenza della montagna segua un percorso in discesa e perciò siamo passati dal crinale all’altopiano. Per proseguire secondo tale direzione dobbiamo tornare alle doline, perché qui vi sono gli inghiottitoi che sono i canali per il sottosuolo e sempre tenendo in mente il rapporto della nostra civiltà con le varie fasce altitudinali. Un rapporto che ai suoi primordi è stato quello di civilizzazione con la croce che un po’ riassume i valori del mondo occidentale, pur in un’epoca di grande spinta alla secolarizzazione, e di sfruttamento in seguito con la costruzione dei residence e degli impianti di risalita, due atteggiamenti assai diversi che si sono manifestati ad altitudini diverse.

Anche i protagonisti sono differenti. Gli alpinisti delle origini, quelli del rifugio S.A.M., appartenevano all’élite borghese, mentre la pratica dello sci è ormai di ogni ceto sociale e, invece, il penetrare nelle cavità è prerogativa degli specialisti. Pure i momenti storici sono distinti: gli albori dell’alpinismo nella realtà molisana si collocano a cavallo tra otto e novecento, il turismo di massa legato agli sport invernali esplode negli ultimi decenni dello scorso millennio e, invece, la speleologia è molto più recente. Riassumendo, a ciascuno degli strati in cui è possibile suddividere la montagna corrisponde una specifica componente della società e un suo momento temporale.

Ciò non è vero per qualunque montagna e nonostante che una larga parte delle emergenze montuose sia costituita da formazioni calcaree alle quali si associa il fenomeno del carsismo perché è qui che quest’ultimo assume un valore eccezionale. Il Pozzo della Neve che è la quarta grotta più profonda della Penisola ne è l’emblema. Seppure vi siano stati sforzi, specie da parte del Gruppo speleologico molisano per diffondere la cultura speleologica organizzando corsi di avvicinamento alla speleologia svoltisi nelle grotte dell’area matesina, il numero di praticanti di questa disciplina rimane limitato.

Si auspica che si allarghi il numero di visitatori di questa cavità anche se forse bisogna rassegnarsi al fatto che la loro esplorazione non è alla portata di tutti. È richiesta una qualche abilità nel maneggiare le corde indispensabili per effettuare certi passaggi e il non essere claustrofobici. Si prenda il caso di Pozzo della Neve che si sviluppa con un primo pezzo in verticale al quale segue una stretta galleria e ci fermiamo qui in quanto basta per capire le difficoltà. A poca distanza dall’entrata si ha il buio totale il quale rende complesso effettuare le riprese fotografiche le quali permetterebbero anche a noi che non siamo speleologi di apprezzare gli ambienti ipogei. C’è, comunque, da dire che le visite dovrebbero essere regolamentate per evitare disturbi al particolarissimo e raro ecosistema sotterraneo.

di Francesco Manfredi Selvaggi (da ilbenecomune.it) 

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