Sant’Anduōne a Campobasso

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Non è solo il Covid che sta minando le tradizioni secolari della civiltà contadina

di Arnaldo Brunale - fb

18 gennaio 2021

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A Campobasso, questa festa ha perso, nel tempo, buona parte dei suoi riti devozionali, delle usanze e delle tradizioni più rappresentative, pur avendo conservato inalterato il suo significato liturgico. 

Ad esempio, una volta c’era la corsa dei quadrupedi che, partendo dal sagrato della chiesa al santo dedicata, percorrendo via Monforte (cambérelle), terminava in via Trento all’altezza dove oggi è allocato il Museo dei Misteri. Intorno alla chiesa non si fa più nemmeno la sfilata dei cavalli, le cui criniere intrecciate erano arricchite con piume e nastri multicolori; né si benedicono i cavalli, i buoi, gli animali da soma e da stalla. 

Oggi si portano a benedire soprattutto animali domestici. Sono state abbandonate anche le usanze di benedire e distribuire le fruscèlle di Sant’Antonio, una specie di pagnotta di pane, a forma di stella, infarcita con i ciccioli di maiale (cìcule); né si vestono più i bambini (munachiēlle) e gli adulti malati con sai che indossavano fino alla guarigione; né si procede alla bruciatura degli stessi abiti sul falò dopo l’avvenuto risanamento. Una tradizione molto cara ai bambini, ormai sparita anch’essa, era quella di fargli trovare, la mattina del 17 gennaio, giocattoli e dolcini. Per evidenti ragioni logistiche non si vede più nemmeno il maialino (puōrche ‘é sant’Andonie), lasciato libero di girare tutto l’anno per i rioni e le contrade, con appeso al collo un campanellino o con l’orecchio sinistro tagliato per far intendere alla gente che si trattava di un animale consacrato al santo, da ammazzarsi nel giorno della sua festività. 

Solo le famiglie più devote preparano ancora la léssata, una specie di ribollita toscana, con fave (fàfe), ceci (cìce) e fagioli (fasciuōle) e non è dato sapere se, durante la sua cottura, le famiglie intonano ancora una specie di invocazione devozionale rivolta al santo: Sant’Anduōne a lu deserte... (Sant’Antonio al deserto...). Anticamante la lessata veniva data a mangiare anche agli animali come segno di protezione del santo su di essi. Molte consuetudini di questa festa, dunque, con il trascorrere degli anni, hanno perso l’antica ritualità di una volta o, addirittura, sono scomparse (in questo giorno tutti i contadini non montavano a cavallo di nessun animale; la cenere del falò, una volta spento, veniva disseminata sui campi per preservarli dalla inclemenza del tempo e dagli incendi; un pizzico di cenere si cospargeva sulla testa dei bambini e degli animali per proteggerli dalle scottature e dall’herpes; ecc.), anche se per la comunità campobassana il 17 gennaio è ancora una festività molto importante. Essa si tiene nel popolare quartiere di Sant’Antonio Abate (Sant’Anduōne Abbate), che prende il nome dall’omonima chiesa, in stile barocco, edificata nel 1572. Provvede a mantenerla viva la famiglia di Nicola Mastropaolo, coadiuvato dal gruppo scout della chiesa e da alcuni volontari che, da decenni, popolano la zona compresa tra Porta Sant’Antonio e Fontanavecchia (Fundanavecchia). Fin dalle prime ore del mattino la gente del posto provvede ad accatastare grossi quantitativi di legna per la pira da bruciare davanti al sagrato della chiesa. 

L’Amministrazione civica, nel rispetto di una inveterata tradizione devozionale, contribuisce alla creazione della catasta con un grande tronco d’albero, mentre i fornai, i contadini ed altre categorie artigianali partecipano con piccoli donativi di legna. Subito dopo le celebrazioni liturgiche del mattino, si benedice la legna e si accende il falò che viene alimentato fino a notte fonda. In questa giornata festiva il campobassano (u cambuāsciāne) rispetta la tradizione del pranzo rituale con cavatelli (cavatiēlle), conditi con abbondanti spolverate di pepe sminuzzato nel mortaio (murtāre), con cacio di pecora (furmagge ‘é pècura) e con sugo a base di polpa di carne di maiale (carne ‘é puōrche), di salsiccia (abbatina), di ventresca (vrucculāre) e di costine di maiale (tracchiūlélle). Naturalmente, sulla tavola non mancano mai le fave bollite (fàfe allésse), fragranti boccali di vino rosso, con particolare attenzione alla tintilia (téndiglia). Anticamente, le famiglie più povere, che non potevano permettersi il pranzo tradizionale, onoravano il santo consumando un pasto più semplice fatto con bucatini bagnati nella sugna di maiale sciolta (‘nzógna), conditi con abbondante pepe tritato misto al cacio di pecora (bucatine ùnde e pepe), con involtini di cotenne (cotéca) e cotennini (cutéchine), con vino di casa e con le immancabili fave cotte e i ceci abbrustoliti (cìce schiāte). Era un pranzo meno nobile, comunque allestito nel rispetto del santo, per la presenza della carne di maiale fra i suoi componenti. In quasi tutte le famiglie il convivio si protraeva fino a tarda notte, tra balli, suoni di organetti (ddùbbòtte), chitarre e bufù, in attesa dell’entrata del Carnevale. Una strana abitudine campobassana era quella di scolare la pasta di casa fuori dalle abitazioni. 

Questa originale “usanza” doveva avere sicuramente un suo significato apotropaico ed una sua lontana origine ma, per quanto si sia provveduto ad approfondire le indagini sul campo, nessuna delle testimonianze orali è stata in grado di darne spiegazioni esaurienti ed attendibili. Anticamente il pranzo rituale, che si consumava a Sant’Antonio Abate, era osservato da tutte le famiglie campobassane, eccetto da quelle dimoranti nel quartiere di San Paolo (sandépàūlane), “nemici invisi” degli abitanti del quartiere di Sant’Antonio Abate (sandandunāre) che, in risposta al loro ricco e tradizionale mangiare, opponevano ed oppongono tutt’oggi, un pranzo altrettanto ricco in cui spicca la farnata ‘é Sande Pàūle, un piatto devozionale preparato con zucca, farina di mais e brodo di maiale, consumato il 25 gennaio, ricorrenza della Conversione di San Paolo. 

La rivalità tra sandépàūlane e sandandunāre si evidenzia nei versi di una canzoncina che questi ultimi intonavano in dispregio dei secondi, ritenendosi a loro superiori: Chi vò vérè’ u fiōre delle donne, ché isse a Sand’Anduōne a tanémende, so’ tutte vassulélle e brunéttèlle, càpéte quāle vuò’, so’ tutte bbèlle! Chi vò’ vérè’ lu scàrte delle donne ,ché isse a Sande Pàūle a tanémende, so’ tutte culacchiūte e piētte ‘nnànde, cape ré ciūcce e musse ré iūmende! (Chi vuole vedere il fiore delle donne, / andasse a Sant’Antonio a guardare, / sono tutte bassine e brunette, / scegliti quella che vuoi, / sono tutte belle! / Chi vuole vedere lo scarto delle donne, / andasse a San Paolo a guardare, / hanno tutte il sedere grande ed il petto appeso, / testa di asino e muso di cavallo!). Anche il seguente detto evidenzia la rivalità che esiste da sempre tra gli abitanti dei due rioni: ‘N Sand’Anduōne le iēte cu ‘àlle; ‘n Sand’Pàūle chécoccia e farnata (A Sant’Antonio Abate le bietole con il gallo; / a San Paolo zucca e polenta)

di Arnaldo Brunale - fb

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