Storia di Gildone: una questione sociale

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Rinfrescare la memoria fa bene alla mente, al cuore e alla pancia.

di Antonio Giovanni Grassi - fb  

13 gennaio 2021

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Parte 1^

Gildone: anno domini 1592
Istituzioni Possedimenti Beneficiari

  • - Fisco: Allodiale Real Feudo di Gildone Camera Baronale
  • - Chiesa: Lasciti in proprietà e rendite Mensa Arcipretale
  • - Burgensatico: Proprietà acquistate con atti notarili 
  • - Cittadini Particolari
  • - Università: Demanio Universale (Università = Comune)

La Società:
I Cittadini di Gildone hanno vissuto fin da tempi remoti insostenibili situazioni sociali ed economiche. Proprietari della maggior parte dell’agro sono stati, nell’arco di tempo che va dall’inizio del 1400 all’ inizio del 1800, i Baroni Carafa, De Stefano, Capece, Guindazzi, Pignatelli che di volta in volta si sono avvicendati nella tenuta del *Real Feudo e nella proprietà del Burgensatico, i potentati come il francese Amato Millot, i napoletani D’Urso e Ferdinando Cacace, i molisani Zurlo - Japoce - Sedati che da costoro avevano acquisito il diritto alle rendite, mantenute anche dopo le leggi dell’eversione della feudalità del 1806 [provvedimenti legislativi del 1806 con i quali Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e fratello di Napoleone, abolì la feudalità nel Regno di Napoli.] e fin quasi ai nostri giorni. Proprietaria era anche la Chiesa come fruitrice dei Legati Pii. I Contadini, come dice il poeta Giovanni Cerri, erano “Frastèr’ da tèrr”, di quella terra intrisa del loro sangue, del loro cuore, del loro sudore e, aggiungo, forestieri anche dell’aria che respiravano.
Nel corso dei secoli la nostra società si era andata strutturando in tre ceti.
Il primo ceto, ”de Melioribus”, era formato da famiglie benestanti e colte come i Campensa, provenienti da Riccia all’inizio del 1700; i Vitale, provenienti da Napoli e di cui si ha notizia fin dal 1500; i notai Chiovitto (Ciùwìtt), che operarono fin dal 1500; ed ancora le famiglie Colino, Farinaccio, Ziccardi, Lepore, Martellino, Bruno, Del Balzo, Perrotti, Mendozza, Speranza, Natilli, D’Elia, Del Vasto a cui appartennero ecclesiastici, medici, notai, avvocati e speziali: la élite del tempo, espressione di quell’aristocrazia fondiaria cresciuta nell’ambito del potere ecclesiastico e all’ombra di quello baronale che vedeva nella cultura dei propri figli uno strumento di scalata sociale che significava acquisizione di proprietà, di peso politico, difesa di privilegi.
Il secondo ceto, “de Mediocribus ”, era formato da artigiani, mercanti, massari, agrimensori, periti di fabbriche e mulini, piccoli proprietari, gente che per vivere era votata alla dipendenza, non in grado di poter far nascere dal confronto con il primo ceto, come avvenuto in altre parti, una classe di imprenditori e di professionisti.
Il terzo ceto, “de Inferioribus ”, comprendeva circa il 90% della popolazione formata da “bracciali”, porcari, caprai, pecorai e cittadini indigenti, gente che possedeva solo qualche misura di orto per procurarsi un’insalata di cipollemercanti, massari, agrimensori, periti di fabbriche e mulini, piccoli proprietari.

Parte 2^

“Oltre alle decime feudali, il contadino deve pagare le decime ecclesiastiche, cosicché appena per lui rimane la metà del suo raccolto. 
Qui non finiscono gli aggravi: altri ve ne sono che interamente l’assorbiscono.
Egli deve pagare i pesi dello stato con tasse arbitrarie sopra i beni e le persone.
Deve alimentare i monaci mendicanti, che anch’essi partecipano di quel pane che deve amministrare ai suoi figli.
Deve dar da vivere a molti esseri che non lavorano, al governatore, all’assessore, all’agente del feudo, al suo dottore. Il suo destino è di essere sempre oppresso e ingannato. 

Frastere da terre: 
Nze tròve pizze de terre
né pizze de mare
che nen canosce
suspìre e sedore du ‘Sserìje:
zappatore d’ fierre.
Sié state ‘na vòta sìcche e tannute
mo sié sdutte e cemmute
come ‘u bastone stuorte
che puorte.
Sié viecchje e pezzente.
Pezzente du ciele
ca sere
t’arreschjare ‘a fàcce
chi cannéle di sànte.
E quanne t’assiette
sop’i scale da chjese,
‘na felera de sante
te jètt’u bastone
t’appicce pa mane
e ze pòrte
pi vìje lecènde du ciele
‘ssu core de fierre:
frastière da tèrre.

[Giovanni Cerri]

di Antonio Giovanni Grassi - fb  

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