Communitas/immunitas

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Al contrario, invece, l'idea di tutela condivisa della salute collettiva e individuale pone al cuore delle pratiche e del sentire un vincolo sociale anfibio

di Letizia Bindi (da lafonte.tv)

16 giugno 2020

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Vorremmo poter dire che ne siamo fuori. Ma sappiamo quanto questa affermazione sarebbe ingenua e fuorviante e soprattutto non farebbe i conti con la necessità e opportunità di esercitare ancora il nostro senso di responsabilità in primo luogo verso gli altri in una idea di tutela condivisa della salute che è concetto di natura del tutto nuova anche rispetto a quello pur legittimo della rivendicazione del diritto alla salute per tutti.

Questo concetto, infatti, nasce al cuore delle democrazie avanzate come segno del loro impegno per le pari opportunità di tutti per poi incrinarsi dinanzi alle oblique ragioni della ottimizzazione dei profitti, della performance dei servizi socio-sanitari in un tempo di biopotere neoliberista secondo cui le ragioni di quadratura dei bilanci hanno maggior valore della vita individuale e della fiducia di una intera utenza.

Al contrario, invece, l’idea di tutela condivisa della salute collettiva e individuale pone al cuore delle pratiche e del sentire un vincolo sociale anfibio, per certi versi più antico e più intimo, radicato eppure al tempo stesso dinamico, innovativo, orientato all’autocontrollo, alla valutazione e ponderazione delle scelte da prendere, al consenso informato così come, persino, al consapevole e critico, ma non superficiale distacco, seppur parziale, da alcune pratiche più restrittive. Soprattutto, l’idea di co-tutela della salute ci impegna in una vigilanza dei nostri altrui comportamenti non persecutoria, ma corale e con-corde.

Questa seconda accezione del prosieguo del distanziamento inquadra le nostre scelte e comportamenti come atto di responsabilità consensuale e critica, nel senso più alto del termine, facendo di noi dei soggetti. Ci costituisce come comunità titolare, togliendoci dalla pedissequa obbedienza a regole e consegnandoci a una convinta adesione a comportamenti scelti consapevolmente perché compresi in profondità.

Essere soggetti ci rende al contempo determinati e fermi avversari di chi ci vorrebbe sciocche pedine di un nuovo gioco sociale fatto di fughe e ritorni indietro così come di crescenti misure di mappatura e controllo dei nostri comportamenti in un rivoltante baratto tra salute e rinuncia a ogni privacy che oltre a consegnare potenzialmente i nostri dati nelle mani di chi potrebbe farne usi impropri ed essenzialmente commerciali, si configura come forma contemporanea di schiavitù e privazione di libertà e legittima privatezza.

Pensarci e comportarci come soggetti responsabili era un tema sullo sfondo anche prima del coronavirus. Stava nelle pieghe delle nostre scelte politiche sempre più inclini a sostenere poteri forti e uomini soli al comando, nell’inosservanza delle buone pratiche di contenimento degli sprechi e dell’inquinamento ambientale (dall’inosservanza della raccolta differenziata così come delle regole di contenimento di attività inquinanti). Stava nell’idea furbetta del “non spetta a me, tanto se ne occuperanno gli altri”, nella cura esclusiva di un “proprio” sempre più limitato alla esclusiva famiglia nucleare. In una percezione dei diritti totalmente disgiunta dai doveri che è forse la prima delle piaghe create dalla incorporazione profonda dell’errore neoliberista.

Molti anni fa, ormai, Putnam rifletteva, osservando la società italiana e la costruzione dell’identità politica nel nostro Paese, di civicness e notava come il senso di responsabilità e il rispetto della cosa pubblica così come del bene comune tenesse in quei contesti che storicamente erano cresciuti da più tempo entro cornici di esercizio democratico o comunque in una linea di soggettività politica, di cittadinanza, vorremmo dire, attiva.

Il senso civico e la nostra costituzione in quanto soggetti politici attivi, nel senso più alto e nobile del termine, può rappresentare oggi una via non coercitiva, ma responsabile, efficace e condivisa di gestione anche della crisi pandemica. Comprendere in profondità le regole e le informazioni che ci arrivano dalla scienza in merito all’evitazione del contagio, adoperarci per formulare e attivare forme alternative di vita associata che permettano di dare seguito alla cooperazione, allo scambio, alle amicizie, alla vita politica e culturale condivisa senza venire meno al patto fondamentale di cura reciproca, impegnarci nella ricerca e nella messa in atto di comportamenti minuti virtuosi cosi come di strategie di sviluppo di più ampio respiro sostenibili e non nocive per noi, gli animali e l’ambiente che ci circonda credo che sia in primo luogo questione di civicness e di crescita di ciascuno degli individui che compongono una comunità come soggetti di diritti e doveri, in una parola come cittadini di una casa comune.

Alle soglie del nuovo millennio il filosofo Roberto Esposito ci ha proposto nell’arco di pochi anni una riflessione molto articolata sul senso del dovere e sul patto di convivenza che darebbe origine al vivere associato. Partendo dal concetto latino di munus Esposito proponeva una nozione di comunità non come proprietà o appartenenza, ma paradossalmente come apertura all’alterità radicale che la costituisce.

L’idea è che la communitas assai più che una cosa, un’essenza, debba essere pensata come processo, come luogo aperto, come faglia che attraversa i cittadini e li “contamina” unendoli reciprocamente. Dietro a questa idea dinamica e in movimento delle comunità, c’è l’idea di “essere con”, della relazione tra i soggetti in cui il munus – che sta sia dentro la parola comunità che a immunità – è al tempo stesso da intendere come “legge” e come “dono”.

Per “essere con”, dunque, ciascuno di noi deve rinunciare almeno in parte alla propria immunità, aprirsi all’altro, in una condivisione che è al tempo stesso profondamente umana e politica.

A questa accezione di condivisione e reciprocità, si oppone allora – secondo Esposito – l’idea dell’immunità che solleva l’individuo dal farsi carico del bene comune, pensando solo alla propria salvezza individuale.

All’incrocio tra l’immunità giuridico-politica (quella di un parlamentare o di altri soggetti beneficiari di privilegi non comuni) e immunità medica, il concetto che emerge è comunque quello di una sostanziale negazione della responsabilità sociale che risolve l’esistenza individuale in isolamento, esclusione, preservazione e crescenti discriminazioni.

In questo senso l’augurio che possiamo farci in questa nuova fase di convivenza pandemica non è paradossalmente di essere ‘immuni’ – come significativamente è stata chiamata la app che dovrebbe aiutarci ad evitare il contagio -, ma semmai ‘comuni’, cioè capaci di ripensare il vivere associato secondo soluzioni di cura e uscita dalla crisi condivise, non volte a scappatoie individuali, ma capaci di pensare in termini di comunità allargata. Solo le conoscenze avanzate, innovative e creative, generosamente condivise e messe a servizio delle comunità possono guidare il rinnovamento culturale, sociale e politico necessario a sollevarci dalle pastoie della pandemia, dalla insostenibilità ambientale delle nostre scelte produttive ed economiche, dai conflitti infiniti e costosissimi che sprecano immense quantità di denaro per preservare confini e privilegi vani dinanzi alla pervasività del contagio e alla radicale inutilità del comandare un mondo malato

di Letizia Bindi (da lafonte.tv)

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