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Terre sane, oltre il Coronavirus

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Appennino, bando prima casa per giovani coppie, famiglie e singoli under 40

di Rossano Pazzagli (da “La Fonte”, giugno 2020)

1 giugno 2020

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Paesi dei morti o paesi vivi?

La contrapposizione tra la vita e la morte, ancorata allo scenario epidemico andato in onda nella primavera sospesa del 2020, è una potente metafora per descrivere la situazione delle aree interne italiane, dei paesi e delle campagne ingiustamente marginalizzate dal processo di sviluppo contemporaneo e che oggi, proprio in virtù della crisi, vedono una possibilità per tornare al centro dell'attenzione. Esse hanno dimostrato, infatti, di essere luoghi più sani, a differenza delle grandi aree urbane e delle zone economicamente più forti. Anche se hanno subito lo spopolamento, i paesi non sono contenitori vuoti, ma un deposito di patrimonio territoriale, di stili di vita e di servizi ecosistemici, e anche di virtù civiche che nell'insieme possono rivelarsi utili non solo per loro stessi, ma anche per sperimentare un diverso modello di sviluppo. Dopo il coronavirus potranno finalmente riacquistare la voce perduta ed essere i punti di una rinascita su altre basi, a condizione che se ne prenda coscienza da subito a livello sociale, economico e soprattutto politico.

“Se c'è una cosa che l'epidemia fa emergere, questa è l'importanza del territorio”, ha detto il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano. Può sembrare elementare, ma è un'affermazione rilevante che rovescia la prospettiva fino ad oggi dominante, cioè quella dei centri ordinatori (poche aree forti a grande concentrazione) e di una vasta periferia costretta a subire processi economici e sociali di abbandono e di marginalizzazione. Le aree forti si sono rivelate fragili di fronte al virus, per cui la ripresa dovrà cambiare strada, possibilmente da subito. È necessario aprire una fase nuova: non la due, la tre, la quattro… ma nuova, nella quale sperimentare nei paesi nuove forme di vita, di economia, di cultura. Adesso, sotto le paure del male e di fronte al fallimento del capitalismo urbanocentrico, in tanti – dai giornalisti alle archistar - si stanno accorgendo di una ben altra emergenza che andavamo denunciando da tempo, cioè quella dell’abbandono e della depressione di tanta parte del territorio italiano, campagne e borghi che costituiscono l’ossatura e la maggioranza del corpo del Paese, una maggioranza di superficie e di risorse naturali.

Ora i paesi non sono più un argomento da addetti ai lavori, da professionisti delle aree interne spuntati come funghi negli ultimi tempi, ma terreno d'azione delle comunità locali, degli abitanti,  un possibile teatro della rinascita. Qui c'è spazio, dunque è più facile, quasi spontaneo il distanziamento fisico, che non dovrebbe mai tradursi in distanziamento sociale. Ma servono misure differenziate, che riaprano alla vita proprio a partire dalle aree interne, rurali o rururbane, dai sistemi territoriali locali. E affinché ciò possa avvenire bisogna ripartire dai servizi e dal lavoro: dall'agricoltura, dall'allevamento, dal turismo, dal commercio di prossimità, dai trasporti, dalla sanità e dalla scuola... che discendono tutti dai fondamentali principi costituzionali: il lavoro, la salute, l’istruzione, la mobilità. L'agricoltura produce cibi sani, i servizi ecosistemici di cui sono naturalmente depositarie le aree interne consento stili di vita più aderenti ad un equilibrato rapporto tra uomo e natura. Un rapporto da ricostruire, come ci sta insegnando la diffusione di questo moderno contagio.

Ripartire dai luoghi, dunque, con politiche placed-based, senza interferenze burocratiche, più snelle per i piccoli comuni, che riprendano il solido impianto originario della SNAI (Strategia nazionale per le aree interne) ma si liberino dei troppi passaggi, che mettano direttamente in comunicazione l'approccio bottom-up con quello top-down, rivedendo ad esempio il ruolo intermedio delle regioni che spesso si è rivelato un elemento di complicazione e di mediazione burocratica. Investire sui paesi, recuperare il patrimonio edilizio abbandonato, sistemare le strade per arrivarci, dotarli di servizi e di reti veloci... sarebbe un grande investimento nazionale, creatore di lavoro, di qualità, di bellezza.

Ma per vivere nei paesi delle aree interne servono soprattutto servizi, servizi essenziali, altrimenti nessuno tornerà. Non basteranno gli appelli di qualche personaggio famoso. Nell’ottica di un riposizionamento delle aree interne italiane, considerate come ambiente salubre e laboratorio di nuovi stili di vita, regioni come il Molise possono ritrovare una nuova centralità in

vari settori, a partire da quello della sanità, in primis dalla necessità di ricostruire una sanità territoriale. La pandemia ha infatti evidenziato la strettoia della rete ospedaliera, l’inadeguatezza delle politiche sanitarie e la necessità di rilanciare un sistema sanitario che riconosca una primaria importanza ai servizi sanitari e socio-assistenziali diffusi e alla loro integrazione con la sanità ospedaliera. Le strategie Snai già approvate prevedono una serie di azioni che vanno in questa direzione: infermieri di comunità, ostetriche di comunità, farmacie rurali come punti di servizio, reti di soccorso e altri servizi di prossimità, compreso un ripensamento del modello RSA per assistere gli anziani, valorizzando strutture e modalità diffuse in modo che i paesi diventino anche borghi del benessere, come è avvenuto a Riccia, ad esempio, o a Castel del Giudice. 

Nell'orizzonte della crisi epidemica, espressione della vulnerabilità del modello di sviluppo dell’ultimo secolo, breve ma anche troppo lungo, il raffronto tra la condizione delle aree cosiddette forti (urbanizzate, industrializzate, finanziarizzate, inquinate) e le aree interne del Paese (abbandonate, isolate, spopolate) ci dice che è tempo di cambiare rotta e di uscire finalmente dalla infelice dicotomia tra sviluppo sbagliato e sviluppo mancato, rimettendo al centro il territorio e i paesi con le loro comunità. Paesi vivi, dunque e non più soltanto patrie lontane ove tornare a visitare i propri morti o a coltivare ricordi.

di Rossano Pazzagli (da “La Fonte”, giugno 2020)

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