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Relazione su Borodol: 1978-1983

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Dalla riapertura della missione di Borodol, avvenuta nel maggio 1978, fino al settembre 1983 (tratto dal diario 1978-1990 di Padre Antonio dalla sua Missione in Bangladesh)

di p. Antonio Germano

1 giugno 2020

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RELAZIONE SU BORODOL: 1978-1983

In questa relazione su Borodol seguo un criterio cronologico, secondo le tappe di un cammino: dalla riapertura della missione di Borodol, avvenuta nel maggio 1978, fino ad oggi settembre 1983. Queste tappe sono chiaramente individuate in tre periodi: I. – PERIODO DA SOLO

II. – PERIODO CON P. PIERO COLOMBARA

III. – PERIODO CON P. OSVALDO TORRESANI

I. – PERIODO DA SOLO

Su questo primo periodo io avevo già dato una relazione circa tre anni fa, ma i Padri superstiti di quell’epoca non sono poi molti e perciò essi m perdoneranno se prendo le mosse ancora da lontano. Questo permetterà a me un ritorno alle radici di una scelta e nello stesso tempo serve a completare un quadro che per la maggior parte dei presenti potrebbe risultare poco chiaro. In questa rievocazione figureranno nomi di assenti. La mia visione naturalmente è parziale e se i suddetti Padri fossero presenti, con i loro interventi, potrebbero renderne più oggettivo il senso.

1. – DESTINAZIONE BORODOL

Innanzi tutto: come avvenne la mia destinazione a Borodol? Non conosco il dibattito precedente, ma so che Borodol saltò fuori come proposta per me nell’ultimo mese di permanenza a Barisal per lo studio della lingua. Il Consiglio Regionale a quell’epoca era formato dai pp. Tedesco, Ghirardi, Boscato, Rubini e Caldognetto. P. Tedesco sosteneva apertamente la riapertura di Borodol, qualcuno era decisamente contrario, come p.Ghirardi, altri, invece, pur propensi alla riapertura, erano contrari a che la responsabilità ricadesse su un pivellino come il sottoscritto.

Proprio in quel mese di aprile, p. Storgato aveva trascorso due o tre giorni a Borodol, visitando anche qualche villaggio vicino ed aveva fatto circolare un paper, che voleva essere una specie di survey con proposta di soluzioni concrete. In sostanza, il padre, pur affermando la necessità di riaprire Borodol, suggeriva che ne venisse affidata la responsabilità ad un padre esperto di vita bengalese e faceva espressamente il nome di p. Tomaselli.

Ad ogni modo, quando in sede di Consiglio Regionale mi venne fatta la proposta, io la considerai come una sfida alle mie ragioni di fede e con un pizzico di incoscienza l’accettai. La clausola comunque era che io andassi a Satkhira e da Satkhira tenessi d’occhio Borodol. Anche l’unica lettera di appointment del Vescovo ricevuta fino ad ora parlava in questi termini: andare a Satkhira con l’incarico di curare Borodol. Della comunità di Satkhira, su tre padri, due erano contrari a questa linea, perché pensavano che in tal modo la responsabilità della conduzione di Borodol ricadeva nuovamente su Satkhira, cosa che loro naturalmente non volevano.

Date queste premesse, dopo una prima visita a Borodol, resomi conto delle distanze e delle difficoltà di comunicazioni, tenendo presente che attorno a Borodol c’era un’altra rosa di villaggi, alcuni dei quali molto lontani dal centro, presi la mia decisione, che risultò, almeno formalmente, contraria a quella espressa dal Vescovo e dal Superiore Religioso. Segretamente però sia il Vescovo sia il Superiore propendeva in questa direzione. Così la mia decisione fu di stare a Borodol senza perdere i contatti con Satkhira, che rimaneva la mia comunità di appoggio. Secondo molti, il mio fu un atto di incoscienza e, a distanza di anni, confesso che ci fu un po’ di presunzione da parte mia. Ma all’origine della mia scelta c’era una motivazione di fede ed anche qualche altra idea, che poi presentai come proposta al capitolo regionale del ’79. In sostanza l’idea era di snellire e ravvivare i nostri centri di struttura, rappresentati soprattutto dalle parrocchie. A mio parere esisteva un modo per rinnovare la struttura e renderla più adeguata alla realtà bengalese ed il modo era di non collocare più di un padre in ogni centro parrocchiale. La mia posizione naturalmente era contraria alla conclamata vita comune riaffermata con valore negli Atti del Capitolo Regionale del “77. Ma, a mio avviso, quello della vita in comune era un tabù da sfatare. Non si trattava tanto di mettere in discussione il valore della vita in comune in se stesso, quanto piuttosto il tipo di vita comunitaria fino allora attuato. Secondo me, una comunità di vita ridotta a nostro livello (di preti e di suore) ci escludeva dalla vita degli altri. L’affermata necessità di questo tipo di vita comunitario poteva essere un punto di sicurezza psicologico, non certo espressione del carisma evangelico. Rompendo questo anello, pensavo, ci sarebbe stato possibile entrare più in comunione con i locali e dare origine a nuovi tipi di vita in comune. “La vita è il paragone delle parole”, dice il Manzoni e, in effetti, l’esperienza ridimensionò parecchio le mie idee. Tra l’altro, avevo deciso di non portarmi dietro nessun tipo di motore, ma, verso la fine di quel ’78, P. Serafino, operato di cancro, torna in Bangladesh portandosi dietro due generatori, destinati ovviamente a Borodol.

Dopo due anni di presenza a Borodol, dopo aver sperimentato tutti i locali mezzi di trasporto, Dalla barca all’elicottero (così viene chiamato in zona la bici a due posti, uno per il guidatore e l’altro per il passeggero a bordo; chiamato scherzosamente elicottero, perché è il mezzo più veloce di trasporto nella zona), con l’esperienza dell’assalto dei dacat (=briganti) e dopo essermi beccato qualche malanno, mi decisi ad usare la moto e così anch’io rimasi completamente inserito in quelle strutture, che, all’inizio, avevo sognato di cambiare.

Non c’è nessuna punta di ironia in questo processo sulla caduta degli déi, ma solo un po’ di rammarico per non essermi mosso secondo una linea di coerenza. La vita, dopo tutto, è la risultante dei limiti che portiamo dentro di noi, che sono tanti e dei limiti, che sono al di fuori di noi e che sono, essi pure, tanti. Il confronto sincero con la Parola di Gesù ci aiuta a renderli strumenti di salvezza per noi e per gli altri.

2. UN PO’ DI STORIA

Sommariamente: - dall’inizio della missione, che risale al 1937, fino al 1958, Borodol, amministrativamente, dipende da Satkhira.

- Dal 1958 P. Serafino incomincia a risiedere in maniera stabile a Borodol, dando inizio ad una amministrazione autonoma con registri parrocchiali propri. Questo periodo si estende fino all’inizio della guerra di indipendenza dal Pakisthan. - Segue poi il periodo di abbandono, in cui Borodol torna ad essere ammininistrata da Satkhira.

- C’è infine la riapertura di Borodol, ufficialmente avvenuta nel maggio del ’78 e la situazione presente.

Alcune conseguenze di questo processo storico discontinuo:

a). La prima conseguenza è quella di una situazione anagrafica assai confusa. La discontinuità di conduzione della missione si ripercuote a livello anagrafico di ufficio con complicazioni facilmente indovinabili.

b). La seconda conseguenza è quella di un gap difficilmente colmabile. C’è tutta una generazione, quella che attualmente va dai 20 ai 30 anni, a cui è venuto a mancare nel momento giusto l’opportuno aggancio educativo. Essi appaiono sbandati e senza una base di richiamo da cui ripartire.

c ). Le conseguenze dell’abbandono si rivelarono negative soprattutto per gli altri villaggi. Se non altro a Borodol era rimasta la scuoletta che funzionava e c’era rimasto anche il catechista. Inoltre, un padre veniva periodicamente da Satkhira per mantenere i contatti. Gli altri villaggi invece erano rimasti nel più completo abbandono e in più di qualche posto erano tornati alle antiche pratiche.

3. ATTUALE CONFIGURAZIONE GEOGRAFICA ED ANAGRAFICA

I villaggi con cui sono stati riallacciati i rapporti sono:

Ci sono tanti altri villaggi divenuti cristiani al momento del relief (in seguito alla guerra di liberazione dal Pakisthan) o anche prima, con cui non sono stati riallacciati i rapporti. Recentemente almeno due di questi villaggi hanno chiesto di ritornare.

4. CONFIGURAZIONE SOCIO-ECONOMICA E TENTATIVI FATTI NEL SETTORE

I Cristiani-Muci di Borodol, che sono senza terra, in genere non sanno apprezzarne il valore e neppure sono in grado di lavorarla. Alcuni commerciano pelli prelevando soldi in prestito dai cosiddetti mohajon (=grossi possidenti locali, strozzini-usurai), con cui sono sempre più indebitati. Altra attività è quella dei calzolai. Soprattutto a Borodol c’è un buon numero che vive sul bazar, lavorando da kuli (=scaricatori-portatori-facchini). Molti, specie negli altri villaggi, sanno lavorare il chach (stuoie o cestini di bamboo) e il bet (una liana che viene dalla giungla, con cui si fanno cesti più robusti ed anche suppellettile varia). C’è poi il gruppo dei suonatori in attività per 4-5 mesi l’anno e cioè in connessione con la celebrazione dei matrimoni e delle varie puja (festività) Hindu. Quasi in ogni villaggio si trova una specie di band party con strumenti musicali e il cosiddetto palki (un palanchino), che serve per trasportare gli sposi nel giorno delle nozze. Solo a Borodol vi sono tre band party. Sempre a Borodol un paio di persone esercita il mestiere di barbiere (il saloon è rappresentato da una sedia, collocata a lato della strada). Nel bazar di Borodol c’è un dokan (negozio), gestito da un cristiano di Nuton Burya, indebitato per altro fino al collo.

5. MIO INSERIMENTO NELLA SITUAZIONE CONCRETA

Andando a Borodol, all’oscuro di tutto, di metodi pastorali e di iniziazione alla comprensione di questo tipo particolare di gente, avevo una sola idea chiara in mente, in quanto mi dicevo: per un anno non prenderò nessuna iniziativa, mi guarderò attorno per cercare di studiare e capire la realtà che mi circonda. Ma, come spesso capita, la realtà ridimensiona le idee e i più bei propositi.

a). PROGETTI DELLA CARITAS

Prima ancora che io andassi a Borodol, P. Luigi Paggi, allora parroco di Satkhira, aveva presentato due progetti alla Caritas: - l’uno riguardava l’arginamento del fiume, che consentiva di strappare al fiume stesso una buona fetta di terra, circa 23 bigha (la bigha è la terza parte di acro).

- L’altro era un housing project, che prevedeva la costruzione di 75 casette di fango con copertura in tegole. I due progetti erano interessanti e si sono successivamente rivelati vitali per Borodol. Erano stati approvati e l’inizio dei lavori coincideva proprio con la mia andata a Borodol. Io arrivavo a Borodol in maggio e P. Luigi partiva per le vacanze in giugno e così il bel tutto mi ricadeva sulle spalle. Tralascio i particolari di questi due progetti, che porterebbero troppo lontano.

b). ALTRE INIZIATIVE DI LAVORO

A parte questi due progetti che mi ricaddero addosso senza volerlo, il proposito iniziale di stare a guardare riuscii a mantenerlo per un paio di mesi. Poi, con l’inizio della stagione delle piogge, cominciarono ad emergere l’uno dopo l’altro i problemi:

Sotto la pressione di questi fatti esterni, mi decisi ad agire, convinto che era impossibile affrontare qualsiasi problema educativo senza una base minima che consenta alla gente di vivere. Mi resi conto cioè che il seme della parola può fruttificare soltanto là dove l’uomo si libera e si redime con la fatica ed il lavoro. Mi ispirai ad un motto di ascendenza benedettina: l’ora et labora, che tradussi nell’equivalente bengalese di dhormo (religione) e kormo (lavoro) avrebbe guidato il mio tipo di presenza e attività a Borodol.

1. IL CENTRO DEL CUCITO

Era preoccupante soprattutto la situazione delle donne, le quali non facevano che litigare dal mattino alla sera e spesso anche di notte. Allora mi dicevo: qui ci vuole un rimedio e la medicina possibile ed efficace la vedevo nell’occupazione, nel lavoro. Fu così che, non sapendo che sbocco avrebbe potuto avere, aprii il centro del cucito, che attraverso un processo, che sarebbe lungo spiegare, è diventato l’Hessian Embroidery Centre, in cui attualmente lavorano 25 donne e due sarti ed ha trovato anche la sua sede nel Community Centre. Le donne del centro del cucito diedero subito vita anche ad un Somobay Somiti (cassa di risparmio), che attualmente ha in banca intorno alle sette mila taka.

2. IL CENTRO DEL MADUR. Avevo notato che al bazar di Borodol ogni domenica c’erano montagne di madur. Poi ero venuto a sapere che Borodol era il mercato nazionale del madur, in quanto bepari (=commercianti) da Dhaka, Khulna ed altri posti vengono a prelevarne in grande quantità. Mi chiesi perché la nostra gente non avrebbe potuto fare questo lavoro, tutto a livello locale: materiale e mercato. Invitai così un mistri (=competente del mestiere), perché insegnasse alla nostra gente. Furono comperati al bazar quei telai rudimentali, cosiddetti beo, con cui si imbastiscono le stuoie ed un primo quantitativo di mele (si chiama così quel tipo di giunco con cui è fatto il madur e che cresce sulla riva dei fiumi). Ogni settimana veniva dato il training a 6-7 persone, le quali, imparato il mestiere, portavano il telaio nelle proprie case e lì continuavano il lavoro. Con questo processo arrivai a coinvolgere una buona quantità di popolo. Nel periodo migliore vi erano coinvolte 45 famiglie. Anche questa attività teneva impegnate soprattutto le donne.

P. Piero Colombara, quando arrivò a Borodol, trovò questa iniziativa esaltante al punto che, quando io ero in Italia per le vacanze, aveva preparato un progetto un po’ faraonico, che estendeva il lavoro ad altri villaggi, coinvolgendo qualcosa come 700 famiglie. La Caritas gli fece mille obiezioni ed il progetto non passò. Poi, l’anno scorso, P. Piero trovò che il metodo con cui io portavo avanti il lavoro e che andava bene per un progetto allargato a 700 famiglie, non era più adeguato. Lui voleva una maggiore presa di responsabilità da parte della gente. Per ottenerla propose un metodo di lavoro che la gente non accettò. Così, dopo un tira-molla durato alcuni mesi, quando la gente si rifiutò di lavorare a quelle condizioni, P. Piero decise di vendere al bazar lo stock di mele, già confezionato per il lavoro. Per lui fu un’operazione semplice, ma per me che iniziato questo tipo di attività e che conoscevo i precedenti non fu una pillola tanto dolce da digerire. Anche l’attività dei madur era accompagnata da un somobay somiti, andato anch’esso in fallimento poi.

Queste due iniziative erano state affiancate da altre di portata più ristretta sia al centro sia negli altri villaggi. A Borodol avevo dato inizio ad una karkhana (fabbrica) delle scarpe, che poi risultò un fallimento. In quasi tutti gli altri villaggi c’erano le attività stagionali del chach (stuoie di bamboo) e del bet (una liana per suppellettile varia), che venivano incentivate attraverso prestiti, che dovevano essere restituiti e che rimanevano come revolving fund per la stagione successiva. In alcuni villaggi la cosa funzionò, in altri invece si rivelò un fallimento. 6. RIORGANIZZAZIONE PASTORALE

Arrivato a Borodol, avevo trovato un solo catechista, Mothi Sing, che si rivelò un prezioso collaboratore. Dirigeva la scuoletta di Borodol, di cui era anche maestro e nello stesso tempo svolgeva la funzione di catechista. Nel primo anno di presenza a Borodol, non mi ero preoccupato di riallacciare i rapporti con gli altri villaggi, legati nel passato alla missione, perché pensavo di averne abbastanza con Borodol. Mi accontentavo di fare delle puntatine rapide, per rendermi conto della situazione. Nella maggior parte dei villaggi la chiesetta era andata distrutta e la gente non si era preoccupata di ricostruirla. In nessuno dei villaggi c’era l’abitazione per il catechista. Quando, dopo un anno di permanenza a Borodol, decisi di riprendere l’attività anche negli altri villaggi, adottai la seguente policy:

Ci fu un periodo in cui P. Pierluigi Lupi sembrava che volesse seguire i due villaggi di Alomtola e Goroikhali. Fece in tempo a costruire la chiesetta e la casa del catechista e a chiudere di nuovo Goroikhali, perché aveva rifiutato il catechista, ma poi P. Lupi prese un’altra direzione

7. GIUDIZIO CRITICO DI QUESTO PRIMO PERIODO

A distanza di anni, pur riconoscendo i miei errori, che furono tanti, devo dire che quella fu per me una immersione e un bagno nella realtà di questa gente, che prima non conoscevo e che poi cominciai a conoscere e ad amare pur nei suoi difetti. A livello spirituale, i due anni e mezzo trascorsi a Borodol, furono soprattutto un’esperienza di fede. 

II. PERIODO CON P. PIERO COLOMBARA: OTTOBRE 1980-MARZO 1983

La venuta di P. Piero a Borodol fu come una bomba per tutti, perché nessuno dei confratelli si aspettava una mossa simile, anche perché, prima ancora che andasse in Italia per le vacanze, era preconizzato parroco a Satkhira. Anche a me suonava strana la cosa e, ad ogni modo, dicevo: finché non lo vedo a Borodol, non ci credo. Tutti riconoscevano a P. Piero una larga preparazione ed esperienza soprattutto in campo educativo-sociale. Lo rivolevano indietro alla Caritas e tanti altri posti erano disponibili per lui nella diocesi di Khulna. Ma lui scelse di venire a Borodol, “per venire a mettere in pratica, at grass root level”, come soleva dire, quello che aveva insegnato per 3 anni girando il Bangladesh per il settore educativo della Caritas. Ad ogni modo venne a Borodol con la lettera di appointment del vescovo, in cui gli si diceva di stare con me a Borodol e di rimanervi fino al mio ritorno dall’Italia, dopo di che sarebbe passato a Satkhira come parish priest, decisione questa che doveva comunque essere ratificata in seguito. Quanto a lungo P. Piero sarebbe rimasto a Borodol? Questo rimase un interrogativo costante della sua presenza a Borodol. Lo seppi chiaramente solo quando lasciò Borodol nel marzo di quest’anno e cioè dopo tutto 2 anni e mezzo.

Devo dire, come premessa, che quello trascorso con P. Piero fu un periodo ricco esperienza per me e ricco di avvenimenti per la gente. Senza volere giudicare P. Piero, per il quale ho avuto e continuo ad avere un grande rispetto, devo comunque dire che la costanza non fu certamente una caratteristica della sua azione. Quello che aveva trovato andare bene per oggi, domani certamente non poteva rimanere uguale. Aveva il pallino della ricerca e della continua sperimentazione. Ad ogni modo, volendo puntualizzare gli aspetti positivi della sua presenza a Borodol, essi si possono così sintetizzare:

1. – SFORZO DI USCIRE DAL GHETTO DEI CRISTIANI

Innanzi tutto P. Piero ha contribuito moltissimo ad allargare gli orizzonti della missione sia attraverso la sua azione personale sia servendosi di altri agenti, come la Caritas, per esempio. Nel periodo in cui ero rimasto da solo, preso dal cumulo delle attività e dalla preoccupazione di riorganizzare la missione, io, in un certo senso, ero rimasto prigioniero del ghetto dei cristiani. P. Piero portò a Borodol nuova aria balsamica. L’apertura del dispensario servì moltissimo a stabilire contatti con Hindu e Musulmani, anche perché in poco tempo si era creato attorno a lui l’aureola del dottore più famoso della zona, soprattutto dopo gli interventi miracolosi della pietra nera. Oltre che per il tramite delle medicine, P. Piero aveva allargato il cerchio coltivando amicizie tra Hindu e Musulmani, che lui stesso andava a visitare. Sempre in questa linea di rottura del ghetto, si era servito della Caritas, prima attraverso la realizzazione di housing projects, i cui beneficiari erano ugualmente Hindu, Musulmani e Cristiani e poi, servendosi di due esperti della Caritas, che lavorarono a tempo pieno, condusse una survey demografica a sfondo socio-economico su larga scala per avere un quadro completo di tutta la Union di Borodol. Campionarie di questa survey erano famiglie Cristiane, Musulmane e Hindu.

2.- TENTATIVI FATTI PER RIBALTARE LA PRESENTE SITUAZIONE DI INGIUSTIZIA

Uno dei tanti pallini di P. Piero era la rivoluzione. Lo si sentiva spesso ripetere: “La rivoluzione viene dal Sud”. Ed il Sud in questo caso era ovviamente Borodol. La sostanza di questa istanza rivoluzionaria era quella di ribaltare l’attuale situazione sociale improntata a palese ingiustizia. Oltre alla via della coscientizzazione, altro mezzo che lui perseguiva era quello di dare un pezzo di terra ai bhumihin (i senza terra): In questa direzione si era impegnato con molto entusiasmo fin dall’inizio. Lungo il corso dei fiumi c’è tutta una fascia di terra, che può essere ricuperata e utilizzata attraverso opportuno arginamento dei fiumi: è quella che si chiama khash land (terreno demaniale) e che in un disegno governativo del Presidente Ziaur Rahaman era destinata proprio ai bhumihin.

Proprio in questa prospettiva aveva adocchiato addirittura una piccola isola di circa 45 bigha nei pressi di Mojidkur e aveva subito iniziato le pratiche per ottenerla a favore dei Cristiani di Mojidkur, che sono tutti bhumihin. Così era avvenuto nei pressi di Burya, dove erano disponibili circa 30 bigha di terra. Ma, nel corso delle pratiche, si era accorto che la cosa non era così semplice come aveva immaginato. Il boro nayeb (l’ufficiale governativo incaricato) aveva chiesto, infatti, per la registrazione 8 mila taka di ghush (la bustarella di pragmatica) e cioè mille taka a testa per ciascuno degli otto futuri proprietari. Fu in questa circostanza che P. Piero fece scrivere una lettera di protesta dal Gregory (l’incaricato dei terreni per conto della diocesi), indirizzata all’O. C. (ufficiale in carica) di Assassuni ( il posto di polizia da cui dipende Borodol) con copia al boro nayeb di Burya, nella quale quest’ultimo veniva accusato di mangiare il ghush sulla pelle dei poveri.

La lettera ebbe un effetto a sorpresa, ma anche spiacevoli conseguenze per noi. Non solo non siamo più riusciti ad avere il khash land di Burya e Mojidkur, ma i grossi papaveri di Borodol, istigati dal boro nayeb di Burya avevano iniziato un processo per annullare il titolo di proprietà sul khash land di Borodol, sul quale stavamo costruendo la scuola ed il community centre. Per buona fortuna, l’amministratore diocesano, P. Pio Mattevi, non senza pagare un po’ di ghush, da Khulna riuscì a bloccare un po’ la cosa.

3. – L’IMPATTO PASTORALE

P. Piero aveva avuto una intuizione su un problema di fondo della nostra gente, sul quale ancora adesso non si ha ancora una visione comune o per lo meno un’azione pastorale comune. Egli in sostanza sosteneva che quelli che da Muci erano diventati Cristiani, dovevano abbandonare in blocco le attività proprie dei Muci e cioè:

Queste tre attività, infatti, sono strettamente collegate fra di loro: chi mangia carogne, anche se direttamente non avvelena, collabora indirettamente con chi avvelena e scuoia, comprandone la carne al prezzo di una o due taka per sher (poco meno di un Kg.).

Ricordo che in uno dei meeting generali con la gente, lui saltò fuori con l’idea del sign board: “Quale sign board vogliamo porre all’entrata della nostra para, Christian para o Muci para?” E disse che si aspettava una risposta precisa dalla gente su questa domanda. Qualche mese dopo io partii per l’Italia e P. Piero continuò in questa policy dell’out-out. Quelli che volevano restare nell’ovile, dovevano rinunciare alle tre attività dei Muci.

Così vennero comminate delle sanzioni contro chi continuava imperterrito il suo lavoro:

n tutto 18 famiglie rimasero tagliate fuori. Queste famiglie, segregate dalla Missione, si diedero da fare per cercare qualche altro protettore, che chiudesse un occhio sul loro peccato sociale. Si rivolsero così alla New Apostolic Church, che fece il suo ingresso ufficiale a Borodol una diecina di giorni prima che io rientrassi dall’Italia. Al mio ritorno l’Ojit, il maestro morto qualche mese fa per avvelenamento, si aspettava di essere reintegrato nel suo chakri (lavoro) di catechista, da cui era stato allontanato l’anno prima per le sue malefatte. Al mio rifiuto, passò anche lui tra le file dei fratelli separati, divenendone il leader. Come finì questa vicenda dei Protestanti a Borodol? In occasione del 3° anniversario della morte di P. Serafino, otto famiglie ritornarono, tra cui anche l’Ojit, che venne assunto dal vescovo come maestro nella scuola. Le altre famiglie rimasero tagliate fuori, ma non conservarono nessun legame con la New Apostolic Church. Così essi adesso sono semplicemente Muci, anche se la maggior parte di loro è stata battezzata.

4. – ALCUNE RIFLESSIONI SU QUESTA STRATEGIA

Questo modo di intervenire penso possa essere letto nella sua giusta luce a distanza di anni. Ad ogni modo, sull’argomento, si sa, ci sono due posizioni e atteggiamenti diversi. Ovviamente tutti sono d’accordo che i nostri devono abbandonare le opere dei Muci, se vogliono essere considerati cristiani. L’avvelenare, lo scuoiare e il mangiare carogne rappresentano il loro Egitto o la terra che Abramo deve abbandonare se vuole vedere realizzata la promessa. Il problema è sui modi e sui tempi. Alcuni dicono che bisogna prima preparare il terreno e offrire loro alternative concrete di lavoro per poter chiedere loro efficacemente di lasciare la condotta dei padri. Altri invece sostengono che l’abbandono di tali opere sia la condizione indispensabile e la premessa ineliminabile per poter lavorare con loro. Nel contrasto delle due posizioni una cosa comunque è certa: i passi che fanno per il superamento di questa ancestrale assuefazione devono essere fatti da loro attraverso un processo di coscientizzazione; se vengono imposti da noi, sul momento potremmo avere l’impressione del successo, ma poi le cose continueranno ad andare come prima, perché noi non possiamo svolgere eternamente il ruolo di poliziotti in mezzo a loro.

5. – LEADERSHIP

Nel mio primo periodo di presenza a Borodol, dopo l’impressione negativa che io avevo ricevuto dei matubbor (capi-villaggio), li avevo sistematicamente isolati e messi da parte. Avevo portato avanti le varie attività intraprese servendomi della collaborazione di un gruppetto di uomini, che allora faceva parte della S. Vincenzo. Successivamente però mi resi conto che se si voleva veramente coinvolgere il somaj (la comunità) nelle varie iniziative e, soprattutto, se si voleva ottenere una risposta ad una certa impostazione pastorale, era indispensabile agire con e tramite i matubbor, che altrimenti avrebbero continuato ad ostacolare e mettere il classico bastone tra le ruote. Il periodo trascorso con P. Piero si è svolto perciò in questo tentativo di riavvicinamento dei matubbor e del loro coinvolgimento responsabile nelle vicende del somaj. Si è passati così attraverso vari tentativi di riorganizzazione del somaj: da un iniziale Comitato dei Dieci ad un Parish Council, sorto all’epoca della frattura della comunità. Quando è avvenuta la riappacificazione, è sorto un altro comitato, il Comitato dei Sedici, che è durato fino al gennaio di quest’anno. Ci sono stati 7 o 8 mesi senza nessun riferimento di leadership. Finalmente, dopo ripetuti tentativi, con P. Osvaldo Torresani, siamo riusciti a mettere in piedi l’ultimo comitato, il Comitato degli Undici, in cui figurano, per la prima volta, anche due donne.

6. – TENTATIVI FATTI PER APPROFONDIRE LA CONOSCENZA DELLA NOSTRA GENTE

Cercare di penetrare quello che si nasconde dietro la facciata della nostra gente, di cui si conosce la estrazione, è stata una preoccupazione che mi ha accompagnato fin dall’inizio. Questa è la ragione per cui mi diedi da fare per apprendere il loro gergo, una sorta di lingua che loro usano quando vogliono tagliare fuori dai loro discorsi gli estranei. E’ la cosiddetta Thar Bhasha, una specie di lingua franca dei Muci. Essi adoperano anche un’altra espressione: amader Ingreji (il nostro inglese). Studi isolati su riviste e qualche buon libro mi avevano aperto la mente su alcuni aspetti fondamentali che bisogna assolutamente tenere presenti quando si scende a lavorare con questa gente.

Primi tentativi di uno studio sistematico erano stati fatti ai tempi in cui P. Luigi era parroco di Satkhira. Nei meeting congiunti dei catechisti di Satkhira-Borodol c’eravamo proposti una conoscenza approfondita della nostra gente e chiedevamo ai catechisti che fossero loro a parlare di se stessi e della propria gente. Purtroppo detti meeting si limitarono a due o tre e poi non continuarono più. L’ultimo tentativo fatto in questa direzione fu l’idea di un Seminar dei Muci-Cristiani al Training Centre di Jessore con la partecipazione dei rappresentanti dei villaggi di Satkhira e Borodol. Con questo seminar ci si proponeva una conoscenza allargata dei problemi reali della nostra gente, che doveva rappresentare un po’ la piattaforma da cui partire per una comune strategia di azione. A quell’epoca i promotori dell’iniziativa erano stati P. John Fagan e P. Piero Colombara. Poi si sa che l’esperimento fallì sul nascere perché i Cristiani di Satkhira si erano sentiti offesi dal titolo che richiamava il loro passato e avevano boicottato l’incontro, facendo intervenire addirittura il vescovo. Da allora più nessun tentativo è stato fatto in questa direzione, ma è auspicabile che iniziative di questo genere vengano riprese e approdino a qualcosa di più concreto.

6. – QUALCHE RIFLESSIONE SUL PERIODO TRASCORSO CON P. PIERO

P. Piero era un vulcano di iniziative e, per la ricchezza di esperienza accumulata nei suoi anni di Bangladesh, per me è stato un utile termine di confronto ed ha contribuito molto ad allargare i miei orizzonti. Devo comunque dire che nella presenza di P. Piero a Borodol c’è stata una parabola ed anche una metamorfosi. Mentre ero in Italia, in una delle sue lettere mi diceva che io avevo sacramentalizzato tutto. A me non era sembrato di essermi mosso in quella direzione. Ad ogni modo accusai un po’ il colpo. L’anno scorso, quando volle presentare una specie di esercizio per un Master Pastoral Plan, partendo dalla situazione di Borodol, per me fu una piacevole sorpresa constatare come lui desse un posto centrale all’esperienza religiosa, definendo il Cristo “il turning point” di ogni azione pastorale. Per me era oltremodo significativa questa constatazione: il recupero cioè in P. Piero della dimensione religiosa, che prima invece non avevo notato presente nella sua azione.

Un altro elemento voglio aggiungere a conclusione di questa riflessione. Nel periodo trascorso da solo a Borodol, ero passato da una iniziativa all’altra, promovendo attività di vario tipo. Con l’arrivo di P. Piero questo aspetto creativo si venne attenuando in me fin quasi a scomparire del tutto. Anzi ad un certo punto si venne a creare in me la sensazione di aver sbagliato tutto ed era forse questa sensazione che mi tratteneva dal promuovere altre iniziative.

Ci sono tanti altri aspetti passati in seconda linea o addirittura trascurati in questa relazione, come, per esempio l’aspetto educativo-religioso, ma in questo campo non pensiamo di fare qualcosa di nuovo o di diverso da quanto si fa altrove.

III. PERIODO CON P. OSVALDO TORRESANI

P. Osvaldo è venuto a Borodol alla fine dello scorso gennaio, quando c’era ancora P. Piero. Il nostro cammino è appena incominciato e perciò non ho un gran che da dire. Penso comunque che il nostro cammino sarà improntato ad un profondo senso di amicizia, che ha alla sua base un rispetto reciproco ed una schiettezza e onestà di fondo. Cerchiamo di non avere segreti fra noi e soprattutto vogliamo dare un certo spazio alla preghiera comune, riconoscendo in essa la sorgente ispiratrice del nostro stare insieme e del nostro agire. Non abbiamo grandi mire pastorali e cerchiamo di muoverci con i piedi per terra, senza colpi di scena. Alla base di tutto questo c’è la coscienza dei nostri limiti e della difficoltà della gente, in mezzo alla quale ci troviamo ad agire. Non rivoluzione quindi, ma paziente attesa, un’attesa che ci sovrasta perché oltre di noi e si pone il più possibile nella prospettiva di Dio, i cui tempi sono diversi dai nostri.

Inoltre nella nostra azione pastorale cercheremo di muoverci con la gente, coinvolgendola il più possibile nel cammino che si vuol fare. L’esito di questo nostro cammino non è alla nostra portata e dipende in massima parte dal Signore, al quale chiediamo luce e forza.

Borodol, Settembre 1983.

P. Antonio Germano, S. X.

di p. Antonio Germano Das, sx. (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

(NdR: Per chi volesse contribuire per dare un aiuto agli ultimi tra gli ultimi nella missione di Padre Germano, ecco i dettagli:

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