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In barca verso Alomtola

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Racconti di Padre Antonio dalla sua Missione in Bangladesh. Correva l’anno 1979

di p. Antonio Germano Das, sx.

14 febbraio 2020

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Sono quattro ore che sono seduto in barca: un tempo interminabile, sempre uguale; cerchi di pensare, ma anche il pensiero ad un certo momento ti sfugge e ti trivi nell’inerzia senza tempo. Sto andando verso  Alomtola per visitare quei cristiani: in tutto una quarantina di famiglie. La chiesetta fu spazzata via in uno di quei temporaloni di maggio. Il catechista, che da pochi mesi avevo mandato di là, aveva approfittato della buona fede e ignoranza della gente raspando take (moneta locale) qua e là e imbrogliando più di qualcuno. Come risultato, qualche mese fa dovetti rimuoverlo perché non ne compinasse di più.

Andando verso Alomtola so cosa mi aspetta: “Padre, noi siamo poveri, stiamo morendo, se lei non ci aiuta, per noi non c’è via di uscita.” E’ la solita filastrocca. Ho avuto tutto il tempo per prepararmi e disporre a dire tanti no. Tanto è vero che porto con me solo i soldi per il viaggio. Attraverso un cammino lento e paziente bisogna cercare di cancellare nella loro mente questa identificazione del padre con le take, per cui la visione del padre a loro non suggerisce altro che la richiesta di aiuto. Finalmente si arriva: 5 ore e per tutto il tempo la corrente sfavorevole. Il solito imbroglio! Ti dicono che fra poco ci sarà la corrente favorevole e poi questi fiumi che si incrociano e si intersecano capricciosamente, rimescolano le correnti in maniera tale che nessun barcaiolo sa prenderle al punto giusto.

Appena metto piede a terra, i bambini mi intravvedono e si precipitano a venirmi incontro, mettendo a soqquadro il villaggio con le loro grida: il padre! Il padre! Il padre è arrivato! Si fa presto a mobilitare gente che non ha niente da fare. In men che non si dica, uomini, donne, vecchi e bambini fanno massa sulla strada. Desiderio di vedermi o semplice diversivo a interrompere l’equale cadenza della loro giornata? Chi può dire fino a qual punto c’è sincerità in questa gente per secoli calpestata e trattata da sotto-uomini, a livello delle bestie? Sugli occhi dei bambini si legge meglio la spontaneità: forse per loro la vita può essere qualcosa di diverso.  

Il primo spettacolo che si presenta entrando nella para (è il raggruppamento delle loro capanne) è il groviglio di legni e tegole della chiesetta spiantata dalla furia del ciclone: sono passati 5 mesi e tutto è ancora lì. Nessuno ha avuto l’idea di raccogliere e sistemare quel materiale disperso. Al più qualcuno si è accontentato di portarsi a casa qualche pezzo di legno per alimentare il fuoco della cucina. Butto l’ombrello e la borsa a terra in maniera significativa in modo che essi capiscano la tonalità della mia visita. Poi mi metto a raccogliere le tegole e a tirare fuori i legni dal groviglio della rovina.

Come sempre, l’esempio è contagioso: tutti mi seguono, primi fra tutti i bambini. Terminato questo primo lavoro, mi dirigo verso la pompa dell’acqua, messa su col contributo del vescovo e mio personale: circa 3 mila take. Da più di due mesi non pesca acqua perché la guarnizione di pelle si è rovinata. A nessuno è venuto in mente che sostituendo la guarnizione, avrebbero potuto attingere acqua di nuovo, evitando di bere l’acqua del pukur (stagno che raccoglie l’acqua piovana).

Mando qualcuno al vicino rice mill a prelevare un attrezzo per aprire la pompa. Arriva un mistri (meccanico) musulmano con due chiavi inglesi e lui personalmente si mette al lavoro. Apriamo e troviamo che effettivamente la guarnizione di pelle è rovinata e bisogna sostituirla. Ad Alomtola tale materiale non si trova, bisogna andare a Paigacha, centro della thana (sede della polizia), che si trova a 5 km. di strada. Ordino che si faccia subito una colletta: una taka per famiglia. E’ più che evidente che se manca il contributo loro personale, se non sentono come loro le cose, niente può durare e tutto è destinato ad avere la stessa fine della chiesetta e della pompa dell’acqua.

Intanto incomincia a diluviare: in pochi minuti tutto è ridotto in una poltiglia di fango e bisogna rassegnarsi a passare tutto il resto della giornata accovacciati in veranda. Intanto è pronto anche il mio pranzo. La mia visita è stata improvvisa e perciò è mancato il tempo per preparare qualcasa di speciale per il padre: un pugno di riso bollito ed un ovetto striminzito. Anche il mangiare diventa uno spettacolo: tutti stanno lì a guardare come me la cavo con le mani, perché questa mia gente forse appena sa che le posate possano esistere in qualche parte di questo mondo. Naturalmente non manca la compagnia degli animali. Qui tutto si confonde e la natura rimescola tutto.

Giunge anche la notte e c’è un letto anche per me. Nella veranda della capanna quel tavolato su cui ho consumato il pranzo e la cena si trasforma ora in letto per me: sopra ci sono io, sotto le capre e le galline. Meno male che non ho un fiuto raffinato ed è depositato in fondo a me quel fiuto campagnolo che ha costituito i primi anni della mia vita.

(Foto: Borodol 1981. Tutti mi osservano Come me la cavo a mangiare senza posate)

di p. Antonio Germano Das, sx.

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