Nemo propheta in patria

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Testimonianze su Giovan Vincenzo d’Onofrio detto il Forlì, uno dei più importanti pittori molisani, attivo a partire dall’ultimo decennio del Cinquecento

di Dante Gentile Lorusso - fb

5 febbraio 2020

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Penso che l’antico detto evangelico “Nemo propheta in patria”, sia quantomeno appropriato a descrivere la scarsa considerazione critica riservata, nella sua regione d’origine, al pittore Giovan Vincenzo d’Onofrio, noto come “il Forlì”, perché nativo di Forlì del Sannio. E’ incredibile che di un artista della sua levatura, nel suo borgo natìo e nell’intera regione, si sia praticamente persa la memoria storica, infatti, non esiste, per quanto mi risulti, una targa marmorea che indichi una piazza o una strada a lui dedicata. Un altro illustre personaggio caduto nell’oblìo, in una terra dove è facile dimenticare e dove le amnesìe sono alla portata del giorno. Ciò rende davvero faticoso il tentativo di riportare alla luce i fatti della storia. Vuoti dovuti spesso ad oggettive difficoltà, se si pensa che per scrivere questo breve articolo sul Forlì ho dovuto sudare le cosiddette sette camice, in quanto le nostre biblioteche sono sprovviste dei libri in cui viene documentata la sua opera, e quando si è più fortunati manca la carta o il toner per fare qualche fotocopia.

Sarebbe auspicabile che gli uffici periferici regionali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali promuovessero ricerche archivistiche per conoscere meglio i contatti dell’artista con i suoi luoghi d’origine, attraverso lo studio sistematico delle carte conservate nell’archivio parrocchiale di Forlì del Sannio, nella speranza che ancora esistano, e tramite l’indagine sui fondi notarili presenti nell’Archivio di Stato di Isernia. 

Nella seconda metà del Cinquecento in Molise è assente del tutto un centro di produzione artistica autonoma e si registra una significativa importazione di opere da Napoli. In questo clima è facile supporre che il Forlì in età giovanile dovette emigrare verso la città partenopea dove sicuramente avvenne la sua formazione. 

Le testimonianze rintracciate nei vari archivi napoletani ci permettono di stabilire l’attività del pittore molisano, documentato ininterrottamente a Napoli tra il 1592 e il 1639, e le sue prime opere dimostrano la sua adesione alle tendenze artistiche presenti nella capitale del Viceregno alla fine del XVI secolo. 

Punto di riferimento della sua pittura sono le fantasie dei “barocceschi” che segnano gli esordi in un periodo nodale in cui gli elementi più importanti della precedente tradizione, condotta soprattutto dal senese Marco Pino, si fondono con le espressioni raggiunte e maturate ad opera di un gruppo di artisti, come il fiammingo Dirk Hendricksz, napoletanizzato con il nome di Teodoro d’Errico, Girolamo Imparato e Fabrizio Santafede, attivi in un momento di grandi iniziative artistiche che attirano a Napoli tutta una schiera di pittori stranieri, rendendo la città un formidabile polo culturale. 

Nel 1592 il Forlì riceve la sua prima commissione per la realizzazione di due tele, l’Annunziata e Sant’Anna, da sistemare nella celebre Annunziata di Napoli, una delle chiese che i documenti, a partire dal 1580 e per un quarantennio, collocano ai primi posti per investimenti d’arte. 

Inizia così la discreta fortuna del pittore pentro che solo due anni più tardi, nel 1594, viene eletto fra i consoli della corporazione dei pittori e partecipa, con i più affermati artisti del momento, al cantiere collettivo per le decorazioni del soffitto dell’Annunziata, sotto la direzione di Santafede, dove esegue Angeli con attributi della Vergine. Opere purtroppo perse nell’incendio del 1757 che distrusse quasi interamente la chiesa dell’Annunziata, privandoci delle più antiche prove del Forlì ma anche di numerosi capolavori della pittura napoletana del tardo Cinquecento. 

Il dipinto più antico riconducibile al molisano è l’Apparizione della Vergine a San Giacinto, conservato nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, un’opera databile al 1595, ubicata nella cappella che la famiglia Brancaccio cedette ai Gesualdo nel 1594, anno in cui avvenne la canonizzazione di San Giacinto. 

Risale al 1597 la prima opera documentata del nostro pittore, che per la Cappella della Concezione di Roccarainola, centro della provincia del capoluogo campano, licenzia una Immacolata, dipinto in cui si manifestano le prime avvisaglie del nuovo clima “internazionale” che respira a Napoli. 

Con sapienti effetti di densa luminosità risulta eseguita la pala con la Madonna di Monserrato e santi, portata a termine nel 1600, per la chiesa di San Mauro di Casoria. Un dipinto costruito con lo schema compositivo a piramide, il più diffuso in quel tempo nella pittura napoletana, in cui sul livello superiore si prediligono apparizioni mariane e angeliche stagliate tra nubi e colori caldi e dorati, mentre nel registro inferiore si allineano santi che lasciano emergere paesaggi con profonde prospettive, non mancano invece quasi mai in primo piano figure di committenti in adorazione. 

Dello stesso anno è l’Annunciazione per la chiesa della Croce di Lucca di Napoli e, poco posteriore (1602), quella di analogo soggetto dipinta per la chiesa dello Spirito Santo sempre nella capitale meridionale. In queste due opere il Forlì mostra velleità d’emulazione dei suoi più illustri maestri, preferendo un’accentuazione dinamica, riferimento puntuale alle più avanzate e innovatrici correnti presenti nel manierismo napoletano.

A questa fase vanno ascritte al pittore sannita la Natività di Santa Lucia ad Aversa e la Madonna con Bambino e santi, collocata nell’abside centrale della basilica di Santa Trofimena a Minori, una icona in cui risulta notevole il brano paesaggistico con un piccolo borgo sul mare, affollato di pescatori ed imbarcazioni, su uno sfondo che richiama uno dei tipici scorci della Costa d’Amalfi. E ancora le due tele con la Natività e l’Assunzione eseguite per la cappella del Rosario di proprietà di Francesco Antonio e Giuseppe De Caro in San Lorenzo Maggiore a Napoli, opere successivamente spostate nel duomo di Castellamare di Stabia dove ancora oggi si conservano. 

Quattro anni più tardi, nel 1606, Giovan Vincenzo Forlì è impegnato con l’interessante tavola Madonna degli Angeli con i Santi Francesco e Stefano della basilica di San Michele a Piano di Sorrento, un periodo straordinario per il pittore in cui stringe ancora rapporti con l’artista Belisario Corenzio, aderendo alla sua riforma veneto-romana nel tentativo ambizioso di mettere in essere un linguaggio di moderato realismo luminoso che si sforza di imitare i toni densi e bituminosi di Caravaggio, che arriva a Napoli nel 1606. Ed è proprio la prima sosta del maestro lombardo nella capitale del Viceregno, dove realizza l’imponente Madonna della Misericordia per l’altare maggiore del Pio Monte della Misericordia, a mettere rapidamente in crisi gli ambienti artistici del tardo manierismo napoletano, creando una frattura insanabile tra quegli artisti che non riuscirono ad accogliere le innovazioni di un linguaggio a loro del tutto opposto. Al contrario, nella stessa città si assisterà alla nascita di una corrente pittorica naturalistica grazie all’adesione di un gruppo di giovani artisti che si convertono al nuovo credo caravaggesco, innescando quel processo di sviluppo che darà linfa vitale alla straordinaria scuola napoletana del Seicento. 

In questo clima nasce la risposta elaborata dal Forlì, che proprio in quel turbolento periodo, solo un anno dopo (1607/1608) dall’opera di Caravaggio, viene incaricato dalla stessa congrega del Pio Monte per la realizzazione della Parabola del Buon samaritano, una tela in cui il molisano media il tentativo di recuperare alla sua poetica la componente caravaggesca, con un risultato troppo debole in cui in buona sostanza riafferma la propria componente culturale. 

In tutti casi si può affermare che il Forlì, insieme a Santafede e Corenzio, fu uno dei primi pittori della generazione tardo-manierista napoletana a porsi realmente e per tempo il problema costituito dalla presenza di Caravaggio a Napoli, contribuendo alla nascita di un filone locale della cultura naturalista. 

Nel 1610 i domenicani di Santa Maria della Sanità di Napoli affidano a Giovan Vincenzo Forlì la realizzazione della grande Circoncisione per l’altare del cappellone di sinistra, un’opera che precedentemente era stata commissionata a Caravaggio, addirittura lasciando aperta l’ipotesi sostenuta da alcuni studiosi, di una possibile progettazione del dipinto da parte del Merisi. La tela, ultimata nel 1612, si caratterizza per una citazione caravaggesca nella figura, opportunamente modificata, della vecchia posta in basso a sinistra derivazione della testa in posizione analoga che il pittore lombardo dipinge nella Crocifissione di Sant’Andrea del Museo di Cleveland. E’, quindi, interessante notare come l’artista molisano ancora in questa fase inserisce nelle sue composizioni elementi desunti dalla produzione figurativa caravaggesca, cercando un difficile compromesso senza però mai rinnegare la cultura tardo manierista da cui proviene. 

Questa frequentazione spinge l’artista a nuove ricerche che lo inducono ad approfondire l’indagine luministica accentuando gli scuri della nuova e tutto sommato incompresa “moda”, raggiungendo però risultati piuttosto ambigui, infatti, le figure sono invase da una luce che raggiunge esiti di puro impreziosimento epidermico e materico. I risultati si osservano nelle tele eseguite intorno al 1616 per il soffitto dell’Annunziata di Capua, dove colloca: l’Annunciazione, la Visitazione, il Sogno di San Giuseppe, la Fuga in Egitto, Gesù fra i dottori e l’Incoronazione della Vergine. 

Anche se attribuito al Corenzio, il Crocifisso dell’Annunziata di Arienzo (1617) è strettamente collegato ai dipinti di Capua, dove si evidenzia la struttura compositiva e il linguaggio forliano. È stata, inoltre, restituita dalla critica al nostro pittore la Madonna del Rosario del 1618, in precedenza assegnata al fiammingo Cobergher, una tela donata, come si legge sul cartiglio, da un certo Raimus Camuli ed esposta nell’omonima congrega di Minori. 

Note sono ancora le opere del Forlì per la chiesa di San Giovanni a Carbonara di Napoli, dove esegue la Sant’Orsola, conservata nei depositi del Museo di Capodimonte, e l’Adorazione della Croce per Santa Maria Assunta di Albano Lucano, entrambe del 1619. Opere in cui la stesura cromatica è diventata più tenera lasciando spazio ad effetti vibranti, mentre le forme diventano più compatte stagliandosi su uno sfondo nero privo di profondità in cui le figure si distaccano senza trovare un vero equilibrio, cedendo ad una formulazione strettamente devozionale. 

Tra il 1620 e il 1622 il forlinese riuscirà a far valere la sua presenza in un altro cantiere collettivo, impegnandosi a fornire i dipinti per il soffitto dell’Annunziata di Giugliano, dove, secondo alcuni documenti ritrovati, percepisce un pagamento parziale di 377 ducati e grana 10 per la Natività di Maria, la Presentazione di Gesù al Tempio e l’Incoronazione della Vergine. 

In quegli stessi anni prende parte ai lavori per il soffitto del Duomo di Napoli, dove lavora trascurando definitivamente di competere con le soluzioni proposte dai seguaci di Caravaggio, segnando un definitivo ritorno alla concezione dello spazio manieristico con una impronta scenografica, rivedendo i suoi modelli prediletti, quelli legati al Santafede e al Corenzio. Nel soffitto colloca l’Adorazione dei Magi, l’Incontro di Gesù risorto con la Madre, l’Incoronazione della Vergine e l’Ascensione, opere in cui dell’esperienza caravaggesca rimane soltanto qualche volto violentemente illuminato e qualche figura sbalzata in controluce. 

Non si conoscono ancora le testimonianze artistiche dell’ultimo ventennio del nostro pittore, documentato fino al 1639, ma è possibile ipotizzare un percorso parallelo a quello di altri artisti dell’ambiente napoletano che in quel periodo producono opere ripetitive, riproponendo modelli e schemi precedentemente sperimentati. Artisti che, di fronte all’incalzante offensiva commerciale proposta dagli emergenti, come Battistello Caracciolo, Jusepe de Ribera e Massimo Stanzione, operano una progressiva semplificazione del linguaggio, una chiusura verso la tradizione, lasciando aperte solamente le strade legate alla committenza della lontana provincia vicereale. 

Didascalie opere:

1 Giovan Vincenzo d'Onofrio detto il Forlì, Buon Samaritano, 1607-1608. Napoli, Pio Monte della Misericordia.

2 Giovan Vincenzo d'Onofrio detto il Forlì, Apparizione della Vergine a San Giacinto,1595. Napoli, chiesa di San Domenico Maggiore.

3 Giovan Vincenzo d'Onofrio detto il Forli, Madonna di Costantinopoli, Toro chiesa SS. Salvatore. 

4 Giovan Vincenzo d'Onofrio detto il Forlì, Sant'Orsola, Napoli, chiesa dei Girolamini.

Bibliografia essenziale: 

CONCETTA RESTAINO, Giovan Vincenzo Forlì “Pittore di prima classe nei suoi tempi”, in Prospettiva n.48, pp, 33 - 51,gennaio 1987 (con ampia bibliografia) 

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