Il 17 si festeggia sant'Antonio Abate

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Un  santo molto caro alle tradizioni campobassane e molisane

di Arnaldo Brunale - fb

16 gennaio 2020

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Un saggio, riferendosi a Sant’Antonio Abate, dice: Sant’Antūone ré iénnāre, tutte le feste arécumenzame (Sant’Antonio di gennaio, tutte le feste ricominciamo), perché questa solennità prelude al Carnevale. Essa è una delle ricorrenze più avvertite dai campobassani, tanto che, a giusta ragione, può essere annoverata fra le grandi celebrazioni del nostro capoluogo, probabilmente seconda, per importanza, solo al Corpus Domini. Molto ci sarebbe da dire sull’apologia del santo nativo di Coma in Egitto, oggi Qemans presso Eracleopoli, e sul significato apotropaico del fuoco che viene acceso nel giorno del suo festeggiamento, ma questi sono argomenti che richiederebbero una lunga trattazione che esulerebbe dallo scopo precipuo del presente lavoro. Giova ricordare solo che Sant’Antonio Abate è considerato il protettore degli animali, dei fornai, dei pastori, dei contadini, degli ustionati ecc. È anche considerato il propiziatore dei solenni riti a lui dedicati dall’antica civiltà contadina, in segno di fertilità, di fecondità, di ringraziamento ed è invocato per gli incendi, per le ustioni e per le malattie dell’uomo come l’herpes zoster (fuōche ‘è Sant’Antonie). 

Il 17 gennaio, giorno in cui si onora questo santo eremita, è la prima vera festa del calendario legato al mondo dei contadini, degli allevatori e dei pastori. Essa arriva subito dopo le festività natalizie, immediatamente prima del periodo carnascialesco. La festività del santo asceta, fu istituita nel V secolo d.C. dall’Abate Eutimio e fu segnata nel Martirologio Geronimiano il 17 gennaio. A Campobasso, questa festa ha perso, nel tempo, buona parte dei suoi riti devozionali, delle usanze e delle tradizioni più rappresentative, pur avendo conservato inalterato il suo significato liturgico. Ad esempio, una volta c’era la corsa dei quadrupedi che, partendo dal sagrato della chiesa al santo dedicata, percorrendo via Monforte (campérelle), terminava in via Trento all’altezza dove oggi è allocato il Museo dei Misteri. Intorno alla chiesa non si fa più nemmeno la sfilata dei cavalli, le cui criniere intrecciate erano arricchite con piume e nastri multicolori; né si benedicono i cavalli, i buoi, gli animali da soma e da stalla. Oggi si portano a benedire soprattutto animali domestici. Sono state abbandonate anche le usanze di benedire e distribuire le fruscelle di Sant’Antonio, una specie di pagnotta di pane, a forma di stella, infarcita con i ciccioli di maiale (cìcule); né si vestono più i bambini (munachiélle) e gli adulti malati con sai che indossavano fino alla guarigione; né si procede alla bruciatura degli stessi abiti sul falò dopo l’avvenuto risanamento. Una tradizione molto cara ai bambini, ormai sparita anch’essa, era quella di fargli trovare, la mattina del 17 gennaio, giocattoli e dolcini. Per evidenti ragioni logistiche non si vede più nemmeno il maialino (puōrche ‘è sand’Andonie), lasciato libero di girare tutto l’anno per i rioni e le contrade, con appeso al collo un campanellino o con l’orecchio sinistro tagliato per far intendere alla gente che si trattava di un animale consacrato al santo, da ammazzarsi nel giorno della sua festività. Solo le famiglie più devote preparano ancora la léssata, una specie di ribollita toscana, con fave (fafe), ceci (cīce) e fagioli (fasciuōle) e non è dato sapere se, durante la sua cottura, le famiglie intonano ancora una specie di invocazione devozionale rivolta al santo: Sand’Anduōne a lu deserte... (Sant’Antonio al deserto...). Anticamente la lessata veniva data a mangiare anche agli animali come segno di protezione del santo su di essi. Una strana abitudine campobassana era quella di scolare la pasta di casa fuori dalle abitazioni. Questa originale “usanza” doveva avere sicuramente un suo significato apotropaico ed una sua lontana origine ma, per quanto si sia provveduto ad approfondire le indagini sul campo, nessuna delle testimonianze orali è stata in grado di darne spiegazioni esaurienti ed attendibili.  Molte consuetudini di questa festa, dunque, con il trascorrere degli anni, hanno perso l’antica ritualità di una volta o, addirittura, sono scomparse (in questo giorno tutti i contadini non montavano a cavallo di nessun animale; la cenere del falò, una volta spento, veniva disseminata sui campi per preservarli dalla inclemenza del tempo e dagli incendi; un pizzico di cenere si cospargeva sulla testa dei bambini e degli animali per proteggerli dalle scottature e dall’herpes; ecc.), anche se per la comunità campobassana il 17 gennaio è ancora una festività molto importante. Essa si tiene nel popolare quartiere di Sant’Antonio Abate (Sand’Anduōne Abbate), che prende il nome dall’omonima chiesa, in stile barocco, edificata nel 1572. Provvede a mantenerla viva la famiglia di Nicola Mastropaolo, coadiuvato dal gruppo scout della chiesa e da alcuni volontari che, da decenni, popolano la zona compresa tra Porta Sant’Antonio e Fontanavecchia (Funtanavecchia). Fin dalle prime ore del mattino la gente del posto provvede ad accatastare grossi quantitativi di legna per la pira da bruciare davanti al sagrato della chiesa. L’Amministrazione civica, nel rispetto di una inveterata tradizione devozionale, contribuisce alla creazione della catasta con un grande tronco d’albero, mentre i fornai, i contadini ed altre categorie artigianali partecipano con piccoli donativi di legna. Subito dopo le celebrazioni liturgiche del mattino, si benedice la legna e  accende il falò che viene alimentato fino a notte fonda.

di Arnaldo Brunale - fb

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