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Ricordando P. Serafino

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Profilo di p. Serefino Dalla Vecchia da me tracciato qualche mese dopo la sua morte avvenuta più di 40 anni fa

di p. Antonio Germano Das, sx.

8 gennaio 2020

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RICORDANDO P. SERAFINO DELLA VECCHIA S.X., MORTO DI CANCRO IL 24 APRILE 1979, ALL’ETA’ DI SOLI 52 ANNI.

Molte volte avevo ripetuto a me che bisognava scrivere qualcosa su Serafino. L’avevo sentito come un dovere ed un impegno fin da quando Serafino ritornò a Borodol e con la sua gente celebrò l’apoteosi prima di consumare l’atto finale del suo sacrificio. Ma un senso di timore me lo ha sempre impedito, perché mi rendo conto che non si può scrivere impunemente su Serafino; scrivere di lui, significa confrontarsi con lui. Poi ho letto il profilo apparso su “Notiziario Saveriano” e il fatto che nel coro di quelle testimonianze mancasse la mia è suonato per me un’accusa.

Il fatto fondamentale della vita missionaria di Serafino è stata l’identificazione con la sua gente secondo quel precetto di vita apostolica che risale a S. Pietro: assumere dall’interno e fare propria la fisionomia del gregge (1 Pt. 5,2). Naturalmente questo stile di vita che si pone in linea con una radicalità evangelica poneva degli interrogativi e lasciava interdetto qualcuno. Ancora recentemente il vescovo venendo a Borodol involontariamente stabiliva un confronto tra il mio metodo e quello di Serafino, dicendo che Serafino era diventato troppo naive e che lavorando con questa gente occorre invece mostrare inflessibilità e tenersi in linea con certi principi di azione. Sul momento mi ero sentito piuttosto lusingato, ma poi avevo trovato il commento troppo superficiale, se non ingiusto. Se Serafino è vivo nell’animo della sua gente, la ragione è una sola: lui ha voluto loro quel bene che si innesta alle radice dell’essere; li ha amati. Qui però l’amore è forza viva e trascende la capacità puramente umana del cuore. Amare un “Muci” significa essere disposti a lasciarsi imbrogliare; donare tutto e aspettarsi di essere bastonati; significa credere in loro, riporre in loro quella fede che essi non hanno ancora il coraggio di riporre in se stessi. Perché il nodo del problema di questa nostra gente è proprio qui. Da secoli essi sono stati calpestati da tutti; da sempre si son sentiti ripetere, prima dagli Hindu, poi dai Musulmani: “Voi non siete uomini, voi siete degli sciacalli”. A forza di sentirselo ripetere, si è creata dentro di loro la convinzione di essere effettivamente dei sotto-uomini e questo è il più grosso impedimento alla loro elevazione sociale. Ora Serafino aveva cominciato con loro un cammino di liberazione. E questo cammino di liberazione era stato intrapreso proprio a Borodol, che è la capitale ( rajdhani) della “Muceria” (il termine è stato coniato da noi addetti al lavoro).

Per me la vigilia di Natale dell’anno scorso (1978) ha tutto il sapore biblico degli eventi dell’Esodo. Quella notte era la prima volta che la chiesa di Borodol era illuminata dal generatore che Serafino stesso aveva recentemente portato dall’Italia. C’era una folla inverosimile che occupava ogni residuo spazio della chiesa. Erano venuti da tutti i villaggi vicini e i loro occhi lucidi di gioia comunicavano all’assemblea quel brivido di arcano che può venire solo dall’epifania del sacro. Ovviamente tra la folla c’erano gli avvelenatori, i ladri, i briganti; c’erano i matubbor (=capi-villaggio), che sempre e in tutti i modi avevano ostacolato il lavoro di Serafino. Ma in quel momento tutti si sentivano redenti dal ritorno del Padre. Serafino quella notte esordi’ dicendo: “ Vi ho portato la luce!...” e quella luce doveva essere il simbolo di una luce più chiara che avrebbe illuminato il cammino che avrebbero ripreso a percorrere insieme.

Poi aveva continuato dicendo: “Abbiamo commesso tanti errori; ne avete commessi voi e ne ho commessi anch’io; l’importante è non ripeterli e noi non vogliamo ripeterli”. Agganciandosi alla storia viva della sua gente con alcuni episodi significativi, paragonava poi la loro condizione a quella degli Ebrei schiavi del Faraone in Egitto. Tutti si sentivano abbracciati, consolati e redenti da quelle parole e nessuno si mostrava offeso per il fatto che li avesse chiamati a più riprese con il loro nome,”Muci”. Lui poteva farlo, perché era diventato uno di loro, ne aveva assunto tutte le miserie portandole fin sulla croce.

Quella fu anche l’ultima notte trascorsa da Serafino a Borodol. Sembrava che tutte le rimanenti sue forze fossero protese verso quel punto culminante. Era stato il suo anelito profondo quello di ritornare a Borodol, l’aveva sperato quasi contro speranza, nella coscienza del suo male, che aveva ripreso a consumarlo. La sua fede lo faceva andare oltre. Era ritornato in Bangladesh con il proposito di impostare in maniera diversa la sua missione, di inaugurare un nuovo modo di presenza tra la gente. Si era documentato sulle pubblicazioni più “à la pace” in fatto di Bibbia, di catechesi, di missionologia; aveva portato opere monumentali sull’Induismo e sul Musulmanesimo. Sembrava che volesse ricominciare da capo la sua vita di missione. A più riprese aveva manifestato il desiderio che la missione di Satkhira diventasse un centro di studi per tutti i padri che operano in zona “Muci”. Soprattutto voleva che si iniziasse uno studio sistematico a livello storico e socio-etnografico sulla nostra gente. Si era acceso di entusiasmo quando aveva sentito che fra di noi si parlava della “Linea Muci” come possibile futuro della chiesa di Khulna. Tutto quello che si riferiva alla sua gente lo faceva vibrare nel profondo.

Ricordo ancora l’ultimo incontro che ebbi con lui all’ospedale di Jessore quando da Borodol gli portai indietro la sua roba. La morsa del dolore lo attanagliava fino allo spasimo, la fibra dell’uomo appariva distrutta eppure voleva sapere gli ultimi fatti di Borodol, dove lui aveva sperato di essere sepolto. Congedandomi da lui,  in procinto di partire per l’Italia, mi ricordo di avergli detto: “ Serafino, offri a Dio la tua sofferenza perché la “Linea-Muci” trionfi”. Questa mia espressione deve averlo scosso in quello che gli rimaneva di vita, come sentii più tardi da chi l’aveva assistito notte e giorno all’ospedale di Jessore. Appena ebbi varcata la soglia, serafino scoppiò in un pianto dirotto, che dava contemporaneamente sfogo a quell’atroce sofferenza fisica ed era anche il momentaneo grido di rivolta a Dio che gli si poneva dinanzi con il calice della Sua Volontà.

Questa mia testimonianza è ovviamente lacunosa, nel senso che molta della vita di Serafino ne è rimasta fuori e non risponde ad una linea di sviluppo logico. Ma ho voluto riferirla cosi’ come la sentivo dentro di me con l’urgenza di un obbligo verso Serafino.

Borodol, 24 agosto 1979

p.Antonio Germano sx.

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di p. Antonio Germano Das, sx.

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