Distopia

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Aurora Delmonaco, dopo la laurea conseguita a Napoli, insegna storia e filosofia, poi è preside nei licei. E’ nominata quindi responsabile della sezione didattica dell’Istituto campano per lo studio della Resistenza. Ha tenuto seminari e conferenze e corsi in tutta Italia sull’insegnamento della storia.  Tra le pubblicazioni, un interessante volume sul suo paese di origine, Pietracupa: “Quelli della pietra cupa – Mille anni di una comunità molisana: storie ed immagini (Napoli 1989), frutto di una puntigliosa ricerca sul posto”. Qui pubblichiamo un suo racconto

di Aurora Delmonaco

23 dicembre 2019

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È arrivato nel nulla. 

Intorno a lui distese di colline verdi senza una voce, squarciate da grigie frane di sassi e di fango. 

Grigie come quel mucchio di case lassù, grigie come l’enorme pietra che le sostiene, grigie come il cielo attraversato da nuvole basse, grigie come la cenere morta di un mondo perduto. 

Perfetto. 

Glielo avevano garantito che fra le aspre terre deserte del Sud avrebbe trovato il set per “Distopia”, il film che gli sta crescendo dentro, storia di un altro spazio, un altro tempo, di un mondo perduto in cui la vita rinasce nuova.  

Non sa neppure il nome di quel paese lassù. Prima che la voragine sulla strada lo costringesse a smontare e ad arrampicarsi fra pietraie e buche scavate dai gorghi di innumerevoli piogge, e vegetazione cresciuta spaccando gli ultimi pezzi di un asfalto corrugato, al bivio c’era un cartello stradale gettato a terra, mangiato dalla ruggine. Soltanto due, o forse tre, lettere leggibili.  

Un paese e basta, senza neppure memoria del suo nome. Abbandonato da decenni, cadente come quello che va disegnando nella sua mente. Perfetto. 

La prima traccia delle vite passate è un cimitero. Il cancello arrugginito penzola dai cardini rotti, non ha nemmeno bisogno di spingerlo ed entra. Guarda le file di loculi, i volti nelle fotografie ovali sono spariti in una nebbia opaca ma le lettere incise nel marmo sono ancora leggibili: “Nata nel 1937”, “La moglie e i figli ricordano”, “Vivrai sempre con noi”.  

Una memoria crocifissa. 

Cammina su strade sconnesse che salgono verso il paese, tra case che un tempo sono state nuove, chiuse nel gelo dell’inverno e d’estate spalancate al sole. Chalet, villette e baite che non hanno mai avuto nulla da dire a quel paesaggio di boschi e campi del Sud, case gettate come ancore nella terra dei padri per generazioni che invece non sono più tornate. Su molte c’è ancora scritto a grandi lettere “Vendesi”.  

Qui c’è solo la tristezza del silenzio, e prosegue per la salita erta che si arrampica sul masso al centro del paese. S’è levato un vento che fa oscillare i cespugli cresciuti sulle soglie e sui mucchi di pietre, s’infila fra tetti sfasciati, finestre dalle orbite vuote e crepe nei muri spezzati, con una voce cupa che fa tacere quella del silenzio opprimente. 

">Ha un po’ di affanno ma poi va finalmente in piano e inaspettatamente sbuca in uno slargo tra vecchi muri, dove il vento s’ingorga e soffia più forte, fa un mulinello di terra arida e polvere alla base del monumento ai caduti. Si ferma a leggere ciò che è scritto su tre lati del basamento: “Guerra 1915-18”. “Guerra 1940-45”. “Guerra 2030-31”. Sotto ciascuna guerra un elenco di nomi, lungo quello più antico, un poco più corto il secondo, soltanto due nomi per l’ultimo. Non perché la guerra nel tempo fosse diventata meno micidiale, ma perché a quel tempo era rimasta una popolazione di vecchi, gli ultimi, pensa. È acqua passata da troppi anni, storia raggelata.  

Attraversa la piazza e s’infila in una strada dritta nel cuore alto del paese. Si ferma, comincia a guardarsi intorno immaginando il set in azione, sceglie qualche bella inquadratura, e per aiutarlo il sole si affaccia da uno strappo fra le nuvole.  

Sente il rumore dei suoi passi sulle pietre bianche come ossa, vacillanti e diradate come i denti dei vecchi. Le case ai lati hanno muri di pietre e malta, finestre chiuse da ante di legno consumato da piogge, neve e sole cocente, come quello dei portoni ancora difesi da serrature. Alcuni ne hanno tre o quattro, una sull’altra: toppe larghe per le antiche chiavi, quelle grosse e pesanti come corpi contundenti che ha visto in un museo, toppe più piccole per chiavi sottili, toppe per quelle antiche chiavi che si portavano in tasca. Chiavi che gli stanno aprendo a ritroso epoche di cui non sa nulla. 

Gli gira un po’ la testa, forse per la fatica del cammino, si ferma, chiude gli occhi, si tasta il polso ma il battito sembra regolare, e con un lungo respiro riprende a camminare lentamente. Solitudine ed echi rarefatti di una storia abbandonata, e morta, questo è venuto a cercare per le scene della nascita di un mondo nuovo. 

In mezzo alla strada è cresciuto un albero selvatico che ha divelto le pietre insinuandovi le sue radici. Ha frutti piccoli e scuri come occhi che lo guardano, e rami e foglie che il vento sospinge verso di lui come per fermarlo. Lui fissa con ostilità l’albero, sosta un attimo, poi prosegue. 

Deve stare attento perché la strada ha un fondo sconnesso, ed è per questo che vede una grossa lucertola verde con sottili strisce scure che corre lungo il muro come se fosse affaccendata e dovesse affrettarsi, o come se fosse spaventata da qualcosa, forse dal rumore dei suoi passi. Più avanti fa un balzo perché un serpente nero, potrebbe essere un biacco, gli taglia indifferente la strada scivolando veloce col suo corpo ondeggiante. Non sta inseguendo la lucertola perché è gonfio di una preda recente, e scompare fra le pietre di un muro crepato, ma lui resta fermo, incerto se procedere o no, quando sente dietro di sé una risata stridula, come di scherno.  

Si gira di botto: è solo l’anta di una finestra a cui deve essersi consumata la chiusura di ferro, e cigola per il vento. Oscilla, poi si stacca dai cardini, va a sfasciarsi in mezzo alla strada, come se si fosse sporta troppo per guardarlo.  

Mastica nella lingua della sua giovinezza una parola rabbiosa rivolta al serpente, alla finestra, al vento e va avanti.  

Tra tanti portoni chiusi, sotto un arco c’è un uscio spalancato e sbilenco, come se qualcuno fosse entrato a forza. Intravede l’interno illuminato da un raggio di sole che passa da uno squarcio del tetto accarezzando i festoni penduli di una vegetazione selvaggia. Nell’angolo c’è un camino rosso di antichi mattoni, nero all’interno per lunghissimi anni di fuoco; su un lato, una credenza.  

Non resiste alla curiosità per metà infantile e per metà professionale, entra. Deve esserci stato veramente un ladro perché nella credenza c’è il vuoto ma, infilata tra il bordo dello stipite e il vetro opaco, resiste ancora qualche logora fotokronia. 

Avranno tenuto compagnia a qualche vecchia rimasta sola e poi morta; sono quasi spente, però si intravedono ancora volti di bambini, due donne, un uomo che furono vivi. Nessuno aveva avuto qualche interesse a portarle via, e anche il ladro le ha trascurate. 

Si guarda intorno e la sua mente comincia a proiettare la sequenza in cui il seme alieno germoglia fra i mattoni spaccati, sullo sfondo dell’intonaco scolorito a chiazze, davanti al camino che sbadiglia annoiato. Dissolvenza.  

Sopra le poche tavole rimaste sul soffitto, lo scalpiccio di piccole bestie unghiute. Rabbrividisce e si affretta a voltarsi per uscire di lì. Un grande topo nero gli passa sui piedi facendogli fare un balzo indietro, e corre verso un buco del muro trascinandosi dietro la grossa coda appuntita. Improvvisamente si ferma, si gira a guardarlo con occhi rossi di sfida, restano immobili tutti e due mentre la catena del camino geme dondolando. Ed è l’uomo che fugge. 

Poi, improbabile in quel luogo e in quel momento, sente un rumore meccanico di ferraglia. Non può farne a meno, va dietro al rumore e gira l’angolo. C’è un vecchio.

Sembra un vagabondo e trascina un’antica bicicletta arrugginita, a cui sono appese borse rigonfie, pacchi, uno zaino. Cammina un po’ curvo, sotto un colbacco ha capelli bianchi e incolti come la barba, e addosso una leggera tunica senza colore, stivali pesanti e brache di tela consumata, come se le stagioni non esistessero, non esistesse il tempo.  

Si gira a guardarlo con occhi opachi, e lui non può fare a meno di chiedergli: 

«Chi sei?»  

«Chi». Il vecchio ha una voce distante e roca. Crede di non aver capito e lo incalza:  

«Dove vai?» 

Riprende a camminare spingendo la bicicletta, poi si gira:  

Va ancora un po’ avanti, si volta di nuovo, lo guarda:  

«E com’è vero che non ho nessun gatto.» 

Lui chiude gli occhi su quella schiena e quell’andatura curva, e quando li riapre il vecchio e la sua bicicletta non ci sono più. Il vento è calato, l’aria è ferma, e lui è solo nel grande silenzio che aspetta la sua decisione.  

Non tornerà in un mondo che si è impossessato dei frantumi di una storia e ride di lui, lo guarda e lo respinge, geme, sbadiglia, lo sfida e striscia, fugge e parla con voce di vento 

E non girerà il suo film in un luogo dove cammina soltanto un vecchio senza memoria, e perciò senza fondamento per le parole, e senza parole capaci di generare pensieri. 

Perché là, tra quelle pietre, si è formata una voragine che ha ingoiato la continuità del tempo.

È tardi, si fa sera. Si avvia per il ritorno. Alle sue spalle, il grigio incombente della grande roccia immobile nella profondità dei millenni. 

di Aurora Delmonaco

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