Montagne ritrovate

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La montagna non sarà la salvezza, ma non possiamo più permetterci di trascurarla

di Rossano Pazzagli (La Fonte, dicembre 2019)

11 dicembre 2019

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È venuto il tempo di risalire, se vogliamo sfuggire alle minacce ambientali, sociali e politiche del nostro tempo. La montagna non sarà la salvezza, ma non possiamo più permetterci di trascurarla; un Paese non può dimenticarsi della sua più evidente e pervasiva struttura territoriale. Da Sud a Nord l’Italia è un paese di montagne, sebbene sia circondato dal mare. L’intero Mediterraneo, scrisse F. Braudel con una felice dissonanza, è un mare di montagne.

Nel corso del Novecento, con l’affermarsi del modello industriale e della società urbanocentrica basata sui consumi, gli italiani sono scesi a valle, discesi inesorabilmente verso le pianure e il mare. Soprattutto dopo la metà del secolo il grande esodo, descritto magistralmente da Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti ha visto il massiccio trasferimento di persone dalle pendici e dalle vallate verso le aree urbane, dove la fabbrica fordista e l’organizzazione taylorista del lavoro rendevano indispensabile la manodopera per l’Italia del boom. Il fenomeno ha assunto dimensioni sempre maggiori e diffuse nel corso dei decenni successivi, con l’abbandono di parti significative del territorio italiano, prevalentemente collinare e montuoso, generando forme di disagio apparentemente contrapposte, ma convergenti nel determinare lo spopolamento delle aree interne e l’intensificazione urbanistica e sociale delle città e delle coste. 

I paesi e le valli, i villaggi aggrappati sulle pendici hanno perso popolazione e attività; non è stato solo un fatto fisico, materiale: “se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto”, ha scritto di recente Franco Arminio. Già intorno l 1960 Emilio Sereni aveva colto la portata di questo processo, visto come “preludio alla disgregazione del paesaggio agrario” collegata al regresso delle colture arative e arboree, del pascolo e delle pratiche boschive, allo spopolamento di interi villaggi e all’abbandono dei poderi “in ogni provincia italiana, specie nella montagna e nell’alta collina”. Si stava estendendo quel fenomeno al tempo stesso sociale e paesaggistico che Italo Calvino aveva descritto per la sua Liguria fin dal 1946 parlando di una “storia in discesa”. Le montagne, componenti principali di quel vasto territorio (più del 60 per cento) che oggi siamo soliti denominare ‘aree interne’, sono state investite da una deriva i cui effetti principali sono stati lo spopolamento, l’emigrazione, la rarefazione sociale e produttiva, l’abbandono della terra, la vulnerabilità idrogeologica e le modificazioni del paesaggio. L’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno così agito in maniera convergente nella marginalizzazione della montagna. Solo parzialmente le aree protette, il turismo e altre forme locali di economia hanno potuto arginare un processo secolare di costruzione di una grande periferia italiana. Bisogna osservare che periferia non si nasce, si diventa. Non è colpa del destino, né della natura. Si è trattato di un aspetto nazionale del “grande saccheggio” o della “miseria dello sviluppo”, per usare due espressioni di Piero Bevilacqua, conseguenti alla scelta del modello di sviluppo.

L’esodo dalle montagne sembrava un addio ai monti, senza più neanche la poetica della bella pagina manzoniana, un tramonto definitivo del mondo agro-silvo-pastorale prodotto dal lungo processo di territorializzazione e di civilizzazione. Invece negli ultimi decenni la fine del mito del progresso e della crescita illimitata, il peggioramento della qualità della vita nelle città più grandi e l’emergere della questione ambientale hanno spinto verso una rivalutazione dei territori montani e rurali, prima di carattere culturale e poi anche a livello pratico con l’instaurarsi di processi di ritorno, legati alla multifunzionalità dell’agricoltura, alla pastorizia, alle produzioni tipiche, al turismo ambientale, alla ricerca di nuovi stili di vita e alla ricostruzione del rapporto città-montagna. Non siamo ancora in presenza di un coerente modello alternativo, ma si possono intravedere in certe pratiche regionali e locali, e timidamente anche in qualche politica, le condizioni (e più ancora la necessità) per una rivitalizzazione del territorio in grado di ridare valore al territorio e alle popolazioni rurali. 

Cosa è rimasto lassù, nella grande area montana italiana, rurale, boschiva, pascolativa e piena di paesi? Non il niente, né il vuoto; non solo la vulnerabilità di un territorio fragile; non soltanto la desolazione e l’isolamento, ma anche un insieme di risorse di cui le aree centrali non dispongono e non possono disporre; forse rimangono lì, più o meno nascosti, anche i germi di una rinascita territoriale e morale del Paese. Non si può parlare di controesodo, ma c’è una nuova realtà diffusa, non sempre rilevabile coi censimenti, che esprime il bisogno di un ritorno consapevole alla campagna e alla montagna. Una moltitudine di casi che delineano una vera e propria mappa, tracciabile e documentabile: un lavoro da fare affinché il dato qualitativo diventi anche quantitativo, perché il risultato non sia soltanto la somma dei casi, ma ci aiuti a delineare una strategia di ritorno alla montagna. In questa prospettiva, la somma non fa il totale. Recensione recenzione 

di Rossano Pazzagli (La Fonte, dicembre 2019)

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