Lettera dell'emigrato italiano

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I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise

18 settembre 2019

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Cara moglie, io sto bene e così spero anche di te. Sono arrivato in questa nazione tanto ricca, ma io mi sento tanto strano in mezzo a gente sconosciuta, abito in una baracca con venti italiani.

Questa nazione, ma sopratutto questa gente straniera è molto diversa da noi, la pensa diversamente da noi, non so parlare la loro lingua, mi vergogno pure ad andare a comprare il pane, perché appena pronuncio questa parola in inglese il negoziante si mette a ridere.

L’aria è umida e irrespirabile, l’acqua non si può bere e quando la si beve è come bere la purga. Il lavoro è duro e faticoso, il boss non ci lascia neanche chiacchierare fra noi operai e appena qualcosa va storta minaccia subito il licenziamento.

Noi italiani non siamo ben visti. Solo a fine giornata, quando torno in baracca, molto stanco per la fatica, fra i miei amici italiani riesco a ritrovare un po’ di serenità e di dignità.

Stare lontano dai figli e da te, è la più dura delle condanne e la mia unica speranza è di riabbracciarvi presto nella terra dolce dove sono nato e cresciuto e che sento ora tanto lontana.

Sento tanta nostalgia dell'Italia, non faccio che pensare di ritornare nella mia terra. Ma devo dimenticare tutte le mie amarezze per ora, pensando che non posso tornare misero come sono partito, perciò appena avrò messo da parte abbastanza dollari per costruire la casa e far studiare i figli, tornerò felice per riabbracciarvi con tutto l’affetto che sento per voi.

Cara moglie, mi manchi molto e la notte ti sento vicino a me, ma solo nei miei sogni.

(Foto di Frank Monaco)

di Vincenzo Colledanchise 

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