Il discepolo incapace

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I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise

9 maggio 2019

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Mastro Vincenzo Ferrara, il primo fabbro ferraio del paese, aveva sempre tanti apprendisti che cercava di istruire nel migliore dei modi, facendolo più con la coerenza della sua indiscussa maestria che con le parole.

Mastro Vincenzo aveva un intuito particolare per selezionare gli allievi più bravi, che aveva cura di trattenere nella sua bottega per molti anni, al fine di incrementare i guadagni. Gli altri erano costretti, prima o poi, a trasferirsi presso altri artigiani più modesti, o rassegnarsi a tornare a fare il solito mestiere dei genitori, cioè i contadini.

Bisognava avere tanta forza, ma soprattutto tanta passione per svolgere questo mestiere faticoso e qualche volta anche pericoloso. La bottega era annerita dal fumo della carbonella e chi vi lavorava sembrava più un caronte che un artigiano. Però grazie alla sola abilità manuale dell’artigiano, che la clientela apprezzava molto, da quella bottega uscivano ringhiere, utensili da lavoro, grondaie, inferriate e serrature straordinarie.

Mastro Vincenzo era anche un abile maniscalco. Quando bisognava ferrare cavalli o asini, egli preferiva farlo nella bottega davanti casa, dove le barrette di ferro di vario spessore venivano battute con forza e perizia sull’ incudine, dopo essere state arroventate nella forgia alimentata con un mantice, azionato a mano da un apprendista, per adattarle agli zoccoli dei quadrupedi.

Invece, ferrare asini era un'operazione più sbrigativa e meno pericolosa. In questi casi, il mastro inviava a domicilio un apprendista che, munito di tenaglie, raspe, martelli e coi ferri di ricambio già pronti, assolveva al compito con piacere, assaggiando anche qualche bicchiere di vino offerto dal cliente. A domicilio avveniva anche la manutenzione periodica, consistente nel taglio e nella limatura degli zoccoli, importante per quegli animali che erano impegnati nel duro lavoro agricolo e nel trasporto di uomini e materiali.

Si racconta che una volta mastro Vincenzo, pur avendo già quattro bravi discepoli, fosse stato costretto ad assumerne un quinto, ma solo perché figlio del compare Antonio e per “ il San Giovanni” non aveva potuto dire di no. Il ragazzo era duro di comprendonio. Non era capace neanche ad agitare la coda di cavallo per allontanare le mosche mentre il maestro lavorava alla forgia. Dopo qualche tempo, il compare Antonio cominciò a reclamare perché anche suo figlio venisse mandato in trasferta. E insistette tanto che mastro Vincenzo, alla fine, fu costretto a esaudire il suo desiderio.

L’apprendista, a causa anche dell’emozione, limò maldestramente gli zoccoli e sbagliò la ferratura, non fissando bene i chiodi sugli zoccoli dell'asino, per cui la povera bestia spazientita, gli tirò calci fino a tramortirlo, tra le urla del proprietario.

Ormai era più di un lustro che l'apprendista incapace cercava di apprendere quell’arte, ma senza miglioramento alcuno. Quando non ce la fece più a lavorare senza essere remunerato al pari dei suoi colleghi, seppure con paga modesta, il giovane andò dal maestro e gli chiese:

"Zio Mastro, quanto tempo dovrò aspettare per avere anch'io la paga?".

Rispose il maestro: "Dieci anni". 

Il giovane era sbalordito. "Così tanto?" 

Replicò mastro Vincenzo: "No, mi sono sbagliato, ci vorranno venti anni". 

Il giovane chiese: " Perché hai raddoppiato il numero?" 

E il maestro: "Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno probabilmente trenta".

di Vincenzo Colledanchise 

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