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La benedizione delle case

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I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise 

23 aprile 2019

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Facevo parte della squadra dei chierichetti e non potevo esimermi dall' accompagnare il sacerdote, in tempo di Pasqua, a benedire le case. 

Reggendo con una mano il canestro per le uova che la gente ci donava, e con l’altra il secchio d’argento dell’acqua benedetta, mi univo alle sue preghiere, salmodiando un latino approssimativo, distratto dalle suppellettili domestiche, dalle foto e dai quadri alle pareti.

Dopo aver benedetto la casa, il sacerdote si limitava ad assaggiare un buccellato o un fiadone e a bere un bicchierino.

I guai iniziavano quando percorrevamo i ripidi viottoli della campagna. 

Già ai primi passi esclamava, madido di sudore: – Che fame, Vincè ! … non ce la faccio più.

Penso che davvero l’aria fresca di campagna e lo sforzo di percorrerla in lungo e in largo gli provocassero una fame da lupo. 

Nei pressi della masseria dei D’Amico, dopo che avevamo benedetto già tantissime case, il sacerdote, esausto, minacciò: – Vincè, qua ci fermiamo. Ieri sera, dopo la messa, Cristina mi ha detto che oggi ci avrebbe fatto trovare taccozze e fagioli.

Taccozze e fagioli rappresentavano per il sant’ uomo il paradiso in terra e gli si inumidivano gli occhi e immagino anche la bocca già solo a nominarli. 

Ne mangiò a crepapelle. A tavola si era creato un clima di cordialità e allegria che cresceva anche con i bicchieri di vino. 

In programma c’era da benedire ancora qualche masseria del Parco e parte dell'agro della Difensa, ma non fu possibile proseguire.

Il sacerdote si era attardato a benedire la casa di Cristina ed esausto, si era accasciato sul tavolo della cucina, ed io pure al suo fianco.

(Foto tratta dall' archivio web risalente agli anni Cinquanta).

di Vincenzo Colledanchise 

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