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Nel 1959 arrivò l'acquedotto e il paese cambiò

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I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise 

14 gennaio 2019

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Alla fine degli anni 50, la Cassa del Mezzogiorno finanziò anche il nostro Comune per la costruzione dell’atteso acquedotto comunale. 

Alla sommità dei colli dei paesi si costruirono i serbatoi di alimentazione, che si scorgevano da lontano per il caratteristico colore rosso pompeiano.

Ricordo l’euforia e la grande partecipazione di popolo per quell’evento epocale. Dal serbatoio, fino alla piazza del paese, dove fu collocata la fontana, furono interrati grossi tubi neri per il trasporto dell’acqua. 

I lavori furono effettuati in economia, e per lo scavo furono allertati tutti gli uomini del paese. Il banditore avvertiva che ogni uomo, munito del proprio piccone o badile, avrebbe dovuto donare almeno due giorni di lavoro per l’imponente impresa. Tale fu il comando del sindaco.

Mai avevo visto tanti uomini assorti tutti insieme per un’opera che avrebbe evitato, finalmente, di attingere acqua dai pozzi del paese, del resto carente e non buona e sarebbe cessata l'usanza di lavare i panni al fiume.

Si scavava a mano, e curioso era vedere la lunga fila indiana di lavoratori, che iniziava dal Colle di Dio per finire fino alle prime case del paese. 

Giunto il giorno dell’inaugurazione, e del relativo collaudo dell’acquedotto, che avvenne di sera, tutti i toresi si assieparono, a circolo, presso la fontana della piazza, per scorgerne il primo spruzzo d’acqua.

C’era gran ressa: vi era chi, per prudenza, allontanava gli astanti, asserendo che la forte pressione dell’acqua li avrebbe scaraventati tutti a terra.

Insomma, l’ansia davanti a quel semplice monumento di mattoni, dal quale fuoriuscivano tre cannelle, posto a ridosso del muretto della piazza, fu tanta, e tanta spasmodica l’attesa, che alla fine fu notato, con estrema delusione, solo un piccolo e insignificante rivolo d’acqua, tra qualche sussulto e fischio. Il quale rivolo, però, divenne gettito potente solo dopo ripetuti comandi alla relativa manopola, posta dietro alla fontana, che qualcuno aveva prudentemente chiuso, temendo l’atteso e temuto gettito impetuoso, che si diceva, avrebbe potuto sommergere tutta quella gente lì assiepata. 

Da quel giorno i barili e le tine vennero abbandonati. Ad attingere acqua fresca e potabile del Biferno, alla fontana della piazza, ci si andava con i primi secchi leggeri di plastica “Moplen”.

Negli anni seguenti, alcuni maneggioni napoletani vennero a reperire le tine di rame, in cambio di bambole o sedie sdraio, riempiendo camion interi di quegli preziosi utensili, ormai diventati inutili. 

di Vincenzo Colledanchise 

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