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Aree interne e nuovi abitanti 

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L’Associazione Culturale San Amanzio di Jelsi premia i lavori della XIV Edizione

di Rossano Pazzagli 

11 dicembre 2018

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Collegare accoglienza e rigenerazione comunitaria, migrazioni e rinascita delle aree interne. È questo il valore dell’esperienza di Riace, rappresentata dal sindaco Domenico Lucano con cui abbiamo dialogato a Campobasso insieme al vescovo Giancarlo Bregantini, per iniziativa del Bene Comune e della Cgil-Molise. Riace ci dice una cosa molto chiara: che il territorio è più avanti della politica e che occorre cambiare il punto di vista; che esistono, in giro per l’Italia, specie in quella chiamata ingiustamente “minore”, buone pratiche e sperimentazioni avanzate che la politica ufficiale non è capace di comprendere, considerandole anomalie da ignorare o peggio da perseguire. La vera legalità è quella che combina la norma con la morale, le leggi con la sfera etica, contemplando anche piccoli scostamenti dalle prime quando la legge può apparire ingiusta o d’intralcio al rispetto dei diritti universali. C’è umanità e strategia politica nelle parole pronunciate da Mimmo Lucano. Quando è necessario, deve entrare in campo la virtù della disobbedienza, come ci ha insegnato Lorenzo Milani.

Si possono guardare le cose dal punto di vista del territorio, dalla concretezza dei luoghi invece che dalle astrazioni uniformanti del centro? C’è una parte grande dell’Italia, circa il 60 per cento della superficie, che ha subito un lungo processo di declino. Una deriva economica, demografica, sociale e culturale che ha progressivamente accresciuto gli squilibri del Paese, allargando le disuguaglianze e esponendo il territorio ai rischi dell’abbandono. Paesi e campagne sono spesso diventati luoghi della memoria, contenitori vuoti, comunità esili da rigenerare. Connettere accoglienza e sviluppo è uno dei modi per ripopolare i paesi abbandonati, favorendo l’insediamento stabile di nuove popolazioni senza rompere definitivamente con i caratteri originari del territorio. Le cose vanno sempre viste in divenire, perché la sincronia è quasi sempre miope. Parlo di uno sviluppo umano, non dello sviluppo economico identificato con la crescita. I luoghi dell’Italia interna vanno rianimati assumendo l’ottica di un cambio di paradigma; non possiamo investire nella loro rinascita se non siamo in grado di sottrarli al modello della crescita e della competizione, che è proprio quello che li ha marginalizzati, calpestati e feriti, qualche volta perfino derisi.

Come ArIA (Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini) ci stiamo interrogando su questo, cercando di collegare i nostri compiti di ricerca con le pratiche di rivitalizzazione delle aree interne, cioè i territori rurali e montani vittime dell’abbandono. Un lavoro di ricerca-azione che ci offre anche l’opportunità di un nuovo e più stretto rapporto tra Università e territorio. Le aree interne, con i loro paesi e i loro patrimoni territoriali, non possono accontentarsi del passaggio, ma hanno bisogno di arrestare il declino demografico secondo una logica di radicamento che aiuti i nuovi e i vecchi abitanti ad essere attivi, produttivi, cooperanti. Non si abita per stare, ma per vivere. 

Il Molise, come le altre regioni del sud-est italiano, vanta esperienze storiche significative alle quali ogni tanto conviene ripensare. La prospettiva storica ci rimanda al fenomeno delle migrazioni interadriatiche che a partire dal XV secolo misero in relazione diretta le popolazioni balcaniche con il territorio italiano, producendo nuove comunità resistenti. Pressati dall’avanzata ottomana, spesso devastati dalla guerra, gruppi di individui si riversarono a più riprese su imbarcazioni più o meno precarie, prendevano il mare e approdavano sulle coste italiane, dalla Puglia al Molise a all’Abruzzo, andando a riempire spazi vuoti o luoghi pressoché disabitati, lavorando la terra, creando o riorganizzando villaggi, sperimentando forme di autogoverno che entravano in relazione con il mondo ancora feudale delle campagne meridionali. Fu così che albanesi, croati e altre popolazioni slave – i cosiddetti Schiavoni – si insediarono stabilmente nelle regioni italiane. Oggi in Molise, a distanza di secoli, esistono ancora i frutti di queste ondate migratorie: sono le comunità arbereshe di Ururi, Portocannone, Campomarino e Montecilfone; e quelle croate di Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice. Esse sono a pieno titolo Comuni e comunità che nessuno si sognerebbe di dire che non sono italiane, che nessuno vede come insidie, che nessuno si azzarda a considerare come concorrenti nell’accesso ai diritti. La persistenza di alcune tradizioni originarie, come la lingua in primo luogo, è anzi considerata un elemento di ricchezza e di vivacità culturale e territoriale nel panorama molisano. La storia, specialmente la storia del Mediterraneo come culla di civiltà antiche, è soprattutto contaminazione, incontro, scambio, conflitto e solidarietà, continuità e mutamento. Dobbiamo saperlo per non sentirci impotenti di fronte alle sfide che ci propone il nostro tempo e per raccogliere l’invito a governare le trasformazioni, invece di subirle passivamente per poi ricavarne impotenza e sfiducia. 

La condizione delle aree interne e quella dei migranti non è frutto del destino, ma il prodotto di un modello di sviluppo squilibrato e diseguale. L’esperienza di Riace e di altri luoghi meno noti indica che queste due condizioni di disagio possono utilmente incontrarsi. Il resto sono cose spicciole e pretestuose. I migranti possono dunque rappresentare una risorsa per contribuire a contrastare i processi di spopolamento e invecchiamento della popolazione in zone dove tra l’altro è necessario e urgente assicurare la tenuta dei servizi di base e rivitalizzare il tessuto economico e sociale. Ma perché ciò avvenga c’è bisogno di diffondere una conoscenza in grado di diventare coscienza.

di Rossano Pazzagli (da La Fonte, dicembre 2018)

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