L’equivoco della crescita

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I rapporti ufficiali sulle condizioni economiche e sociali dell’Italia certificano puntualmente il divario tra Nord e Sud, tra città e campagna, tra montagna e pianura

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv)

21 novembre 2018

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Siamo il Paese delle differenze. I rapporti ufficiali sulle condizioni economiche e sociali dell’Italia certificano puntualmente il divario tra Nord e Sud, tra città e campagna, tra montagna e pianura, tra la costa e le aree interne. Ma invece di valorizzare le differenze, rappresentarle come ricchezza e potenzialità di risorse, sembriamo più inclini alle classifiche, ai ranking come si dice con uno dei tanti stucchevoli anglicismi, pronti a distinguere i buoni dai cattivi, gli avanzati dagli arretrati, dando per scontato che il modello di riferimento sia sempre uno e solo uno. E se quei rapporti ufficiali non dicessero la verità? Se si vivesse meglio in un piccolo paese dell’Appennino, anziché a Firenze o a Bolzano? In una contrada rurale, invece che nella periferia di una metropoli? Il ben vivere non è soltanto una questione di soldi, di grandezze monetarie o addirittura finanziarie. Si vive soprattutto di salute, di alimentazione sana, di aria buona, di cultura, di ritmi più umani, di relazioni sociali, di spazio e di natura, di libertà. Ma questi aspetti sfuggono alla lettura aggregata dello sviluppo, che privilegia appunto i connotati della crescita. Il resto non sembra interessare, quindi non si misura, oppure si usa un’unità di misura non appropriata.

È come misurare l’acqua col metro anziché col litro: i conti non tornano e si travisa la realtà. Dovremmo quindi smettere di misurare le zone rurali, le aree interne, i paesi e le campagne, che costituiscono la parte più estesa del Paese, con gli stessi parametri del modello che li ha marginalizzati, trascurati e abbandonati. La crescita economica è cosa ben diversa dallo sviluppo umano. Anzi l’esperienza storica contemporanea dimostra che i fini della crescita si stanno progressivamente allontanando dal benessere sociale degli individui e della collettività. Il PIL e il reddito procapite, in particolare, non sono più indicatori idonei a rappresentare l’effettivo benessere delle persone e della loro condizione di vita, che include necessariamente anche aspetti fisici, psicologici, morali e spirituali in gran parte legati anche alla località, cioè ai luoghi dove le persone vivono. C’è, dunque, un problema di misura. Se i luoghi, cioè i contesti, sono importanti nel determinare la condizione di vita (si pensi alla differenza effettiva di benessere, a parità di reddito procapite, che può verificarsi tra Venezia e un paese del Molise, o tra Parma e Casacalenda, ad esempio), allora i luoghi devono essere considerati nella misura, e la misura deve essere adatta ai territori, altrimenti è perfino inutile tradurre tutto in numeri: sapremmo già in anticipo che lontano dai poli urbani troveremo solo arretratezza, isolamento, sottosviluppo. E che altro dovremmo trovare, se andiamo a cercarvi quello che non c’è?

La cosa non è di secondaria importanza, perché se si sbagliano i conti e la misura, poi si sbagliano anche le politiche. Così la marginalizzazione continua: una gran parte del territorio italiano, bella e piena di risorse culturali e ambientali, continuerà a restare senza voce, condannata a perdere abitanti, servizi, attività produttive e dignità sociale.

Qualcosa si muove: gli studi sull’ economia della felicità, sull’economia fondamentale, sul capitale sociale, sul patrimonio territoriale, stanno aprendo nuovi orizzonti, innanzitutto sul piano scientifico e culturale. L’economia e la sociologia, arricchite dalla conoscenza dei processi storici e delle dinamiche antropologiche, sono ormai in grado di offrire qualche scenario avanzato. Agli studi si accompagnano in modo abbastanza diffuso piccole ma significative esperienze di rinascita territoriale. Anche la statistica, che più di ogni altra disciplina risente del problema della misura, si sta interrogando, rivolgendo l’attenzione ad altri indicatori che escano dal deformante dogma della crescita. Dal 2013 l’Istat ha così avviato il Rapporto BES, cioè il rapporto sul benessere equo e sostenibile, elaborato ogni anno utilizzando indicatori che vanno oltre il Pil, con l’obiettivo principale di valutare il progresso della società non soltanto dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale, seguendo un approccio multidimensionale che integra le informazioni fornite dagli indicatori sulle attività economiche con le fondamentali dimensioni del benessere, corredate da misure relative alle differenze e alla sostenibilità. Si tratta di ben 129 indicatori raggruppati in 12 domini fondamentali: salute, istruzione e formazione, lavoro e tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione-ricerca e creatività, qualità dei servizi. Da questa fondamentale griglia di lettura non discendono solo dati, ma anche le possibili e conseguenti strategie politiche. Seguendo questa strada, che implica una critica severa delle modalità di lettura finora utilizzate, è possibile rendere il Paese e le sue comunità locali maggiormente consapevoli dei propri punti di forza e delle difficoltà da superare per migliorare la qualità della vita dei cittadini e dei territori, ponendo tale concetto alla base delle politiche pubbliche e delle scelte individuali. Il cambio della misura e la disaggregazione dei dati per aree regionali e locali, abbandonando le astratte e fuorvianti medie nazionali, appare la prospettiva necessaria per rileggere lo stato effettivo del Paese, di tutto il Paese, e per creare le basi di un radicale cambiamento del modello di sviluppo. Per uscire dall’equivoco che ha accompagnato l’illusione contemporanea, cioè che lo sviluppo umano e la crescita economica fossero la stessa cosa

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv)

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