Il Biscotto di Venafro

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Chi lo chiama Tarallo, lo offende

di Franco Valente - fb

15 novembre 2018

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L’olio aurino impastato con la farina, qualche seme di finocchietto, un po’ di lievito, è fondamentale per dare un sapore speciale a quei rotolini di pasta che, lunghi un paio di palmi, prendono la forma del serpente che si mangia la coda. Buttati prima nell’acqua bollente e poi infornati diventano incantevoli biscotti, cioè cotti due volte.

Averli a tavola invece del pane è un privilegio perché il biscotto di Venafro è tra le cose più buone della regione. Riceverli alle feste importanti è segno di augurio.

Portarseli dietro, in un barattolo di latta chiuso ermeticamente, significa assicurarsi la sopravvivenza anche nelle situazioni più complicate. Ancora meglio se si ha l’accortezza di portarsi anche un caciocavallo di Agnone, di Carovilli o di Frosolone. Un biscotto e una fetta di caciocavallo mangiato nel teatro di Pietrabbondante o nel foro di Sepino, magari seduti su una lapide antica, vi riconcilia con la storia.

Se poi avete cinque minuti, un paio di pomodori, uno spicchio di aglio, una foglia di basilico (che qui si chiama “vasenecola” quasi a dimostrare che i bizantini vi abbiano lasciato qualche traccia) potete ridurre in pezzetti qualche biscotto, tenerli nell’acqua mentre si recita un Pater-Ave-Gloria, mettere tutto in una zuppiera dopo averli scolati ben bene, aggiungere olio abbondante e pezzetti di caciocavallo e mangiare senza fretta. 

Se volete strafare ci potete unire anche fiordilatte molisani o qualche tocchetto della “signora” di Concacasale o di guanciale di Scapoli.

(estratto dalla mia presentazione di ROUTE 66 di Pozzilli)

di Franco Valente - fb

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