Per una archeologia rurale

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In uno scenario caratterizzato dalle montagne nell’interno e da poche pianure, bagnato da un breve tratto di mare, il Molise

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv)

14 giugno 2018

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In uno scenario caratterizzato dalle montagne nell’interno e da poche pianure, bagnato da un breve tratto di mare, il Molise è stato caratterizzato storicamente da una agricoltura estensiva (grano e pascolo), qualche zona in cui prospera l’alberato (vite e ulivo), un disperso sviluppo delle attività non agricole (tessile, fabbriche, mulini, qualche artigiano…), una centralità della transumanza sulla base della quale si è articolato nel tempo il vero (e forse unico) sistema infrastrutturale della regione – quello dei tratturi – e si erano insediati lungo i fiumi vari nuclei per la lavorazione della lana.

L’aumento demografico del ‘700 aveva innescato dei processi, come l’ estensione dell’area coltivata a spese del bosco e dei pascoli, che generavano vantaggi immediati, producendo però danni irreversibili sul lungo periodo (si pensi al diffuso dissesto idrogeologico). Nel corso dell’800 crolla il sistema secolare della transumanza, che aveva dato importanza e centralità al Molise, e verso la fine del secolo si avvia il lungo e a tratti impetuoso fenomeno dell’emigrazione. Assistiamo in questa fase al delinearsi di un settore agro-alimentare (fabbricazione della pasta), in parte agganciato alla preesistente tradizione dei mulini. Alle soglie dell’età contemporanea il paesaggio, riflettendo la struttura economica ed agraria, mostra i segni di tre dimensioni principali: la cerealicoltura estensiva con intermezzi di spazi ortivi, l’allevamento e l’arboricoltura (oliveto e vigneto). Una struttura produttiva semplice in un territorio difficile, un volto rugoso spezzato qua e là da colline più dolci e cromaticamente sensibili al mutare delle stagioni. I prodotti della terra e dell’allevamento, dei saperi e delle pratiche del lavoro rappresentano i frutti della combinazione tra vocazioni naturali e processo storico, un aspetto dell’incontro sempre complesso tra Demetra e Clio.

Oggi si è soliti accostare il termine industria a quello di città. In effetti l’urbanizzazione ha rappresentato uno degli elementi più importanti tra quelli che hanno accompagnato il processo di industrializzazione e che, soprattutto a partire dal Settecento, ha determinato in tutta Europa un progressivo aumento della popolazione dei centri urbani a scapito di quella rurale, dispersa in borghi e villaggi o in case sparse nelle campagne. Eppure anche il mondo contadino porta i segni di varie attività di tipo industriale, legate in primo luogo all’esercizio dell’agricoltura, ma anche ad altre forme di organizzazione produttiva. Una miriade di oggetti, approssimativamente definiti come “beni della cultura materiale”, costituita da zappe, vanghe, falci, aratri, falciatrici, trebbiatrici… fino ai trattori e alle moderne macchine, rimanda al vasto settore della meccanica agraria che prima di divenire, tra Otto e Novecento, uno dei comparti dell’industrializzazione italiana, ha conosciuto una costante attenzione all’interno delle aziende agricole, dove si cercava di fabbricare in proprio gli utensili necessari alla coltivazione, all’allevamento del bestiame e alla trasformazione dei prodotti. Aldilà della meccanica agraria, proprio il settore della trasformazione delle principali produzioni agricole ha costituito nel tempo il maggiore volto industriale della campagna, l’elemento di raccordo tra le prime forme di organizzazione industriale e quelle dell’ attività agricola. Si può parlare, a tale proposito, di una “archeologia rurale” in parallelo alla più nota archeologia industriale.

Tutte queste attività, non a caso definite in ambito agronomico come “industrie agrarie”, riguardano principalmente l’oleificio, l’enologia e il caseificio. Una volta queste produzioni erano strettamente legate all’ azienda agricola ed avvenivano quasi sempre al suo interno, mentre attualmente esse implicano macchinari e tecnologie produttive che solamente una industria può fornire ed hanno bisogno di una scala adeguata per affrontare il mercato globale, per cui sono ormai completamente scisse dalla produzione agricola. Possiamo tuttavia riconoscere che negli ultimi decenni il tema della qualità e della tipicità delle produzioni sta rendendo possibile, specialmente in alcuni casi e in alcuni contesti regionali, riannodare i fili che collegavano la produzione agricola e la trasformazione dei prodotti.

Ciò che resta delle esperienze di meccanica agraria, di frantoi o mulini, come degli impianti per le produzioni zootecniche, tessili e edilizie, disseminate in modo puntuale nel paesaggio di molte zone rurali, possono quindi rientrare a pieno titolo nel patrimonio territoriale, nella ricerca e nelle strategie di patrimonializzazione e valorizzazione culturale, economica e turistica. Essi consentono di documentare da un lato l’evoluzione secolare della vita economica, dall’industria rurale alla protoindustria e all’industria, nonché alla conoscenza delle pratiche agrarie tradizionali; dall’altro la lettura di tali pratiche consente di riqualificare il paesaggio come bene di interesse collettivo, promuovendo la conoscenza del territorio attraverso una rete di percorsi a maglie più o meno larghe a seconda della densità dei fenomeni passati dell’industria rurale e della dirompenza dei processi di sviluppo avvenuti successivamente. In tale prospettiva, gli ecomusei e i biodistretti costituiscono i principali strumenti per la conoscenza, il riuso e la valorizzazione del patrimonio territoriale.

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv)

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