Il Khokkosh della selva nera

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Favole bengalesi che vogliono far riflettere

di p. Antonio Germano Das, sx.

11 dicembre 2017

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BREVE PREMESSA. Una fiaba a lieto fine. Come il nostro mondo di una volta era popolato di streghe, spiriti (ghosts),draghi, chimere, sirene, “Caron dimonio con occhi di bracia”, ecc., così anche nella cultura bengalese questi personaggi mostruosi trovavano e, in alcuni casi, trovano tuttora ampio spazio. Per saperne di più a riguardo, basta digitare su internet: “ghosts in bengali culture”.

E’ un racconto che si perde lontano nel tempo. Ai piedi della catena dell’Himalaya c’era una foresta. Nessun uomo ardiva addentrarsi in quella foresta, i cui alberi erano così fitti che tutti la chiamavano selva nera. Vivevano nella foresta i rakkhosh e i khokkosh. Tutti sanno che i rakkhosh hanno sembianze umane. Essi si cibano di carne umana e, se non la trovano, mangiano la testa dei serpenti. I khokkosh invece non assomigliano agli uomini. Essi sono animali giganteschi e non si cibano d’altro se non di carne umana. Come noi alleviamo i polli, così essi addomesticano esseri umani in gabbie smisurate ed ogni giorno ne divorano uno. I khokkosh più grandi però ne mangiano tre al giorno. Questo è il motivo per cui nessuno si avventura nella selva nera. Dal canto loro, nessun khokkosh fuoriesce dalla foresta, perché respirando aria fuori della foresta si ammalerebbe di polmonite.

Ma un giorno accadde un disastro. Un khokkosh andò a dormire lasciando aperta la gabbia. Così gli uomini che vi erano rinchiusi, durante la notte, fuggirono tutti. La rabbia del khokkosh fu incontenibile. Gridando hau mau e abbattendo alberi e quanto incontrava sul suo cammino uscì dalla selva nera. A lato della selva nera c’era la capitale del regno del Tibet. La gente del regno era estremamente forte e coraggiosa e non aveva paura di nessuno. Alla vista del khokkosh, essi gli si mossero incontro con archi, frecce e lance. Ma il khokkosh era smisuratamente alto come l’albero tal( il tal è una palma dal frutto delizioso; il suo legno è duro e pregiato ed una volta serviva per coprire i tetti delle case)e la sua pelle era dura come il ferro. Frecce e lance rimbalzando sul suo corpo tornavano indietro e non lo scalfivano neppure. Allora, presi da paura, si diedero alla fuga. Il khokkosh inseguendoli li raggiunse e divorò la testa di quattro di loro. Poi rientrò nella foresta.

La notte il re convocò un’assemblea e disse: “Fratelli tutti, domani il khokkosh uscirà di nuovo. Se non trova qualcuno da mangiare, egli verrà in città e ne farà fuori molti. Ascoltate bene le mie parole: in questa città ci sono 10 mila abitanti che hanno superato l’età di 10 anni, tra i quali ci sono anch’io, c’è la regina, mia figlia e mio figlio. Di questi 10 mila io scriverò ad uno ad uno i nomi su un foglio e lo deporrò in questo kolshi (recipiente di terra cotta). La sera di ogni giorno, alla presenza di tutto il popolo, verrà estratto un biglietto. Colui, di cui risulta scritto il nome, andrà e si presenterà al khokkosh. Sacrificando la propria vita egli salverà la nostra. Tuttavia sì, se qualcuno volontariamente vuole offrirsi al suo posto, allora il designato potrà fare a meno di andare”.

Rimasero tutti in silenzio. Il re chiamò un bambino e gli disse: “Estrai un biglietto”. Il re lo fece poi circolare perché tutti leggessero. Sul foglio c’era scritto il nome di una persona anziana che disse: “Bene! Io sono pronto”. Il mattino seguente, a piedi, egli si avviò verso la foresta del khokkosh. Piangevano tutti. L’unico a non piangere era la persona anziana. Col sorriso sulle labbra egli prese congedo e si allontanò. Per molti giorni ancora continuò questo corteo funebre. Ogni giorno dal kolshi veniva estratto un nome. I designati andavano incontro alla morte e non fu necessario che qualcuno li spingesse. Alla vista di tale coraggio, il re si inorgogliva di giorno in giorno, ma nello stesso tempo il suo cuore scoppiava dal dolore.

Un giorno però, quando fu estratto il biglietto, il volto del re divenne pallido. Nella reggia esplose il pianto. Nella capitale del regno il pianto contagiò la casa di tutti. Sul biglietto c’era scritto il nome del principino: aveva solo 12 anni! Come avevano fatto tutti gli altri, anch’egli disse: “Bene! Io sono pronto!” L’età della sorella era di 18 anni. Ella disse: “Papà, io non permetterò che il mio fratellino muoia! Egli è molto più piccolo di me e non ha ancora girato il mondo. Andrò io al suo posto!” Fino a quel momento il re, pur in una pena insopportabile, non aveva pianto. Questa volta, però, sentite le parole di sua figlia, dai suoi occhi incominciarono a cadere le lacrime e, abbracciandola, disse: “Figlia mia, dopo aver ascoltato le tue parole, il mio cuore è sussultato di orgoglio. Non ho provato mai tanta gioia in vita mia. Ma ad una figlia come te io non permetterò di morire. Tu devi vivere, figlia mia! Tu spenderai la tua vita distribuendo gioa e pace in mezzo alla tua gente. Andrò io al posto del tuo fratellino”.

Al mattino il re salutò tutti. La gente allora affollò tutt’intorno la reggia: tutti piangevano. Il re si avviò verso la foresta. Come i suoi sudditi, anche lui prese il sentiero della foresta. S’incamminò a testa alta e non si voltò indietro... Il re, al posto di suo figlio, incominciò a camminare verso la selva nera. Dietro di lui tutti piangevano. Il re non si voltò indietro neppure una volta.

Prima di giungere a destinazione, avvertì il rumore dei passi di qualcuno dietro di lui. Giratosi vide che un giovane gagliardo stava avanzando verso di lui. Il re chiese: “Perché tu vieni a morire con me? Chi sei?” Il giovane rispose: “Io non son venuto per morire, io son venuto a caccia. In tutta la zona non c’è un cacciatore abile come me”. Il re riprese: “Io non voglio che un giovane coraggioso come te vada a morire. Torna immediatamente sui tuoi passi: ordine del re!” Il giovane rispose: “Moharaj, io non sono tuo suddito e non obbedisco ai tuoi comandi”.

I due giunsero al margine della foresta. Il suolo era cosparso di sangue umano. Il giovane accese allora un fuoco e con una freccia preparò una torcia. Non appena intravvide il khokkosh, accese la torcia, l’assestò sull’arco e si pose fermo in allerta. Il khokkosh aprì la bocca e si fece avanti per afferrarlo. In quel momento il giovane, raccolte tutte le sue forze, scagliò la freccia in fiamme dentro le fauci del khokkosh. La bocca del mostro si richiuse impedendogli di respirare. Così, come impazzito, incominciò a sobbalzare di qua e di là finché non cadde stramazzato a terra e non riuscì più a muoversi.

Il giovane disse: “Moharaj, torniamo nella capitale; questo mostro non potrà più arrecare danno a nessuno”. Il re di nuovo gli chiese: “Dimmi la verità: tu chi sei?” Il giovane rispose: “Io sono il principe di un regno che confina con il suo. La scorsa notte io ero presente nella sua assemblea. Là ho visto sua figlia ed ho potuto ascoltare le sue parole. Se lei mi ritiene degno, io vorrei sposarla”. Il re ribattè ridendo: “In che modo potrai tu essere degno? In vita mia non ho mai visto un giovane disobbediente come te... Tuttavia... se mia figlia acconsente, io non mi opporrò”. Non era ancora finito il loro colloquio, che la gente si era precipitata in frotte. La principessa correva davanti a tutti. Arrivata, abbracciò prima il papà... poi corse dal giovane e l’abbracciò. Il giovane tra sé e sé pensò: probabilmente neppure la principessa dirà di no.

di p. Antonio Germano Das, sx.

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