Vicende curiose dell’antico mondo contadino di Baranello

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Un insegnamento per le nuove generazioni

di Giovanni Manocchio

10 novembre 2017

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 “Solo col lavoro agricolo può aversi una vita razionale, morale. l’agricoltura indica cos’è più e cosè meno necessario. Essa guida razionalmente la vita. Bisogna toccare la terra”(Lev Tolstoj).

Molto tempo fa essere contadino era sinonimo di arretratezza, bassa cultura e talvolta goffaggine; vivere nella città, lavorare nell’industria, nella pubblica amministrazione o avere una professione libera con tanto di laurea e di onorificenza invece voleva dire maggiore gratificazione, e soprattutto avere una marcia in più rispetto alla mediocrità. Ma attraverso la macina del tempo, dopo tanti decenni, chi sul groppone sopporta un cospicuo numero di primavere può costatare in prima persona come si è evoluta la società, ed in quali miserie sociali sono sfociate parti delle sacre e nobili aspettative di una volta. Miseria non intesa come mancanza di mezzi di sostentamento, altrersì come corruzione, sfruttamento, bullismo, e vari tipi di dipendenza, ad iniziare dalle droghe per finire ai video terminali; dovute probabilmente alla netta recisione del sacro cordone che ci lega alla madre terra.

Forse la vita agricola di una volta era maestra di vita, e cooperava alla crescita interiore ed interpersonale nonostane la sua apparente semplicità e goffaggine; e proprio da quest’ultima, come paradosso, si ricava un modello esistenziale, certamente con molti limiti, che fa sorridere, ma che rispecchia cicli umanitari connaturali ad un esistenza umana più dignitosa.

Già negli anni 50 la vita non scorreva alla cadenza del quarzo ma secondo un antico orologio solare, ed in un pomeriggio di autunno zi Antonio D., in groppa al suo mulo saluta l’amico Nicola seduto sul gradino del portone di casa. “Nicò comme va, da quanta tiempe nen ce vedeme”. “Antò non troppe buone, tenghe nu mbarazzament e so tre juorn che ne vajie de cuorpe”. “Nen te preoccupà Nicò ca te la port i na cosa bona”. Il giorno dopo ripassa zi Antonio e fa all’amico “ Nicò mittet chesta” e gli porge un siluro di notevoli dimensioni, “e dumane passo e me fa sapè nuvetià”.

All’indomani ripassa e fa “ me Nicò comm’ è juta”, e lui “pe me la mette so avut mal a che fa, ma doppe,…. na grazia de Dì” e Antonio commenta“Te l’eva ditt Nicò, chessa è na cosa santa, l’ha urdnat lu eterenarie a la vacca me”.

Lasciamo gli amici alle loro deduzioni e ci ritroviamo sul tragitto di ritorno dalla festa di c.da Cappella a notte fonda, io mio padre e mia madre a piedi, poichè nei primi anni cinquanta i mezzi meccanici di trasporto si potevano contare sulla punta delle dita. Ero piccolo, dopo cento metri a piedi mi tenevano in braccio, ed erano quattro km di strada da farsi - della vicenda ho risaputo quando avevo qualche anno in più -. La festa di Cappella del 29 di agosto è da sempre una meta fissa per tutti i baranellesi; qua in questo giorno, vige una tradizione di ospitalità verso amici e parenti che risale alla notte dei tempi. E da invitati si andava a cuore libero dai parenti senza eccessive reticenze verso le squisite pietanze e le bevande liberatorie; festa religiosa al mattino ed un pò meno al calare del sole. Arrivammo quasi a metà strada ed in una zona detta Pizzarelli trovammo allungato sulla strada zio Francesco, il compare di mio padre, che nonostante qualche, bicchiere in più –o forse più di uno, è risaputo poi che sempre l’ultimo è quello che fa più danno -lo riconobbe e sollevandosi sui gomiti gli disse “ Vittò è passato 5 minuti fa Giuseppe P., ma barcollava, non si manteneva in piedi, aveva una “pella” (sbornia)! Alla faccia, da quale pulpito viene la predica; però tutto sommato ci può stare anche questo.

Era sempre in quegli anni che il veterinario di allora, non era originario del paese, aveva portato a termine un intervento chirurgico di sterilizzazione di un maialetto sull’aia prospiciente la stalla di zi Vincenzo, che era conosciuto da tutti poichè le cose le diceva senza eccessivi, e forse inutili filtri corticali. Un intervento durato dieci minuti. Vincenzo e la moglie Maria mantenevano fermo il maialetto - non me ne vogliano gli animalisti-, ed il veterinario con due colpi secchi, non di bisturi ma con un coltello affilato simile a quello della pota, apre, si fa strada nel corpicino dell’animaletto; estrae il di più e lo lancia a tre o quattro metri dove “ lu cuacciun” di famiglia assisteva anche lui impaziente all’operazione. Il maialino finalmente libero scorazza per cortile con acuti grugniti, più che per il dolore quanto per essersi liberato da quella stretta tenaglia. A fine intervento, dopo adeguata ricucitura, con filo simile a quello che si lega la salsiccia, Vincenzo Maria ed il dottore risalgono la scarpata per recarsi “ sott a la cupertina” e lavarsi adeguatamente le mani” il dottore si siede, per su una seggiola rimpagliata da poco, -se qualcuno chiedeva al dottore se c’era pericolo di infezioni lui rispondeva “ chiss tene e risorse, nunn’ è comme l’omme - ed alla sua destra vede un cesto colmo di mele; ne prende una e fa “Vincè ti rubo una mela” e lui “magnat magnat dottò , tant nu chess le deme a re puorce”.

Come potete notare l’elaborazione mentale è perfetta e molto sottile.

Siamo presenti adesso ad una nottata di ballo che chiudeva la celebrazione di un matrimonio durante il ventennio fascista. Secondo le usanze di allora si ballava solo in presenza degli sposi, ed un uomo di mezz’età, una figura caratteristica di quel periodo, che sapendone di più della gente comune, organizzava e dirigeva il ballo.

Dopo tanti saltarelli, brindisi e divertimento l’organizzatore, contento di come proseguiva la serata, era sempre attento e richiamava spesso tutti al loro ruolo, “Adesso il cavaliere con la mano destra prende la sinistra della dama e le donne in cerchio all’interno e gli uomini girano intorno”. Ad un certo punto  l’organizzatore con voce ferma grida “fermo il ballo che la zita piscia”. Qualcuno non vi fa caso, e molti lo guardano un po’ incuriositi ed i parenti che venivano dalla città lo guardano attoniti; ma lui non vi fa caso. Niente di strano, voleva solo dire che si interrompono le danze poiché la sposa doveva recarsi alla toilette.

Raccontare questi aneddoti realmente accaduti non è prendere in giro il vecchio mondo contadino, ma mettere in luce la sua semplicità, e qualche stravaganza potrebbe essere paragonata al mondo agricolo romagnolo di felliniana memoria. Una figura di tale levatura avrebbe avuto tanto materiale da elaborare, qua a Baranello e nel Molise tutto.

Il parlare in quel mondo era schietto, essenziale, senza maschere di abbellimento; una gaffe è solo un episodio insignificante, e dopo un pò tutto riprende col suo ritmo naturale; attualmente invece sono i particolari che hanno diritto di cronaca, quelli che fanno storia, dimenticando, o mettendo in secondo piano la realtà dei fatti. E può accadere anche che, un uomo colto e perbene, amico di famiglia e di cui sembra potersi fidare, rivela poi la sua indole pedofila.

 di Giovanni Manocchio

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