Methor (pulitore di fogne o anche spazzino)

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Favola bengalese che vuol far riflettere

di p. Antonio Germano Das, sx.

22 settembre 2017

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BREVE PREMESSA. Questa volta sostituirò la breve premessa con un racconto autobiografico, che allegherò a questa traduzione.

Bangladesh, 2 ottobre, 2002

UNA DOMENICA DA PARIA

Una domenica da untouchable (fuori-casta). Non è la prima volta e penso che non sarà neppure l’ultima, ma quando capita, c’è da divertirsi. Si apre la giornata con la celebrazione liturgica. Si comincia di buon’ora, alle sei e mezzo, perché qui in Bangladesh la domenica è giorno lavorativo e quindi bisogna sistemare il Signore prima delle otto del mattino. L’assemblea domenicale risulta formata dal piccolo nucleo di battezzati (una diecina in tutto) e da quello più numeroso dei catecumeni, una sessantina, con i quali abbiamo iniziato il lungo cammino (almeno quattro anni) di avvicinamento a Gesù, che culminerà con il battesimo. La liturgia, naturalmente, con i canti e le letture, l’abbiamo preparata in anticipo, perché sia il più possibile partecipata. E’ uno dei punti su cui ho insistito molto fin dall’inizio, perché, come ho sempre sottolineato, qui stiamo ponendo le basi di una tradizione, che sarà il punto di riferimento per tutti quelli che diventeranno discepoli di Gesù nella zona e in futuro.

Il breve testo del vangelo di oggi riecheggia il passo fondamentale del libro del Deuteronomio: ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, uno è il Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt. 6,5), completato da quello del Levitico: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv. 19,18). Da questi due comandamenti, dice Gesù, dipende tutta la Legge e i Profeti. Non so che riflessione abbiate fatto voi, cari Duroniesi sparsi per il mondo, ma per la mia gente questa è una novità assoluta, è la novità del messaggio di Gesù, che contiene in sé il germe di quella umanità nuova, senza discriminazione di casta, di razza o di religione e che riconosce ad ogni individuo l’appartenenza alla stessa famiglia, la famiglia dei figli di Dio. La società del sub-continente indiano, a cui appartiene il Bangladesh, da millenni si porta dentro il sistema delle caste, che sottolinea in maniera lacerante la diversità dei gruppi e degli individui legata alla nascita con la stratificazione infinitesimale di chi ha più diritti e di chi ne ha meno o addirittura nessuno . E’ difficile dire se si tratta sostanzialmente di un fenomeno culturale, a cui si è aggiunto poi l’aspetto religioso o se la visione religiosa precede la ramificazione di questo tessuto che investe ogni aspetto della vita associata. Neppure gli studiosi di Induismo si trovano d’accordo nel definire chiaramente la natura del fenomeno, anche se recentemente si propende per una spiegazione culturale piuttosto che religiosa. Infatti questa mentalità è diffusa e presente anche in Bangladesh, in cui la stragrande maggioranza della popolazione da secoli ormai è musulmana. La struttura stessa del villaggio è uno specchio fedele di questa società stratificata, con gli steccati mentali della differenziazione di casta. Infatti ogni gruppo umano, in base al suo barna (casta), ha anche una diversa collocazione topografica. Per cui abbiamo la para (=raggruppamento di case) dei bramini, quella dei commercianti, dei contadini, dei pescatori...e infine le varie para dei fuori-casta con i vari nomi legati al tipo di lavoro che fanno. I Muci o Rishi, per esempio, che sono i fuori-casta di Chuknogor, erano scuoiatori di carogne. Lo stigma dell’intoccabilità è rimasta attaccata sulla loro pelle anche se non fanno più quel mestiere. La mia identificazione con loro è cominciata nei 12 anni trascorsi nella missione di Borodol. Mi ricordo che quando la gente dei villaggi, che attraversavo, mi vedeva passare, soprattutto i bambini, gridava Mucider Father asce (sta arrivando il padre dei Muci). Per me naturalmente è stato un titolo di vanto.

Se almeno i fuori-casta cercassero di fare unione fra di loro e di coalizzarsi, potrebbero fronteggiare tanti soprusi che vengono perpetrati nei loro confronti. Invece no, perché un Muci si sente superiore al Kaura (=guardiano porci) o al Methor (=colui che pulisce i cessi, che in bengalese vengono chiamati paykhana, parola che indica sia il luogo sia la sostanza).

Questa lunga premessa è stata necessaria per capire quello che sto per raccontare. Terminata la celebrazione eucaristica, mi si avvicina il guardiano della missione, che è un musulmano e mi dice: Father, schooler paykhana theke oshombob ghondo! (in Italiano: dal cesso della scuola viene fuori una puzza tremenda!). Capisco al volo, per esperienza ormai, che si tratta di un trasbordo del pozzo nero e mi predispongo al dafarsi. Il guardiano naturalmente si aspettava che gli dicessi di chiamare i Methor e non si aspettava certo che io diventassi il Methor di turno. Ho fatto la mia colazione da solo perché il P. Sergio è ancora in Italia per il suo turno di vacanze e poi mi sono attrezzato per l’operazione che ha colto tutti di sorpresa. Mi sono procurato un secchio ed una pala e via verso il pozzo nero. Mi sono mascherato per bene il naso, ho scoperchiato il pozzo ed ho proceduto all’operazione. Come d’incanto sono scomparsi tutti dalla circolazione, lasciandomi solo nel mio lavoro. Nessuno si è azzardato a darmi una mano, perché il rischio è grosso e nessuno vuol passare per Methor agli occhi degli altri. Così mi sono trasportato i miei 50 secchi, che tra l’altro rendono un ottimo servizio all’orto che ho appena zappato.

Forse vi aspettavate un altro tipo di racconto da chi ha vissuto più di 25 anni di missione in Bangladesh, ma anche questo penso serva per completare il quadro. Soprattutto è un elemento integrante di quella tradizione, di cui parlavo all’inizio e che è volta a cambiare la mentalità della gente, che crede che un certo tipo di lavoro contamina l’uomo, segregandolo dagli altri e rendendolo intoccabile o paria. Sono certo che questo mio gesto sarà tramandato alle generazioni future e diventerà anch’esso un punto di riferimento per chi vuol diventare discepolo di Gesù. Spero di raccontarvi qualcosa di diverso nel futuro, parlandovi magari dei frutti del mio orto, concimato così abbondantemente. 

Ricordatemi al Signore. p. Antonio Germano sx.

Methor

Quel giorno Jolil era dicattivo umore. Il maestro lo aveva richiamato perché continuava a disturbare durante la lezione e lo aveva di nuovo rimproverato perché non aveva fatto i compiti a casa. Tanto per finire, agli esami mensili aveva preso cinque. Per la vergogna non sapeva dove nascondere la faccia. Jolil è figlio del chairman. Il ragazzo non è cattivo. Adesso, però, quando Shibu nel gioco delle palline di marmo ha vinto tre volte, allora non è riuscito più a controllarsi. La rabbia dell’intera giornata si era accumulata su di lui. Al termine del gioco Shibu gli disse: “Jolil, tu sei in debito con me di cinque palline, dammele!” “Non te le darò, imbroglione, razza di methor!” “Che cosa hai mai detto?...”Devo ripeterlo? Ho detto quello che sei! Sei un imbroglione e figlio di methor!”

Il volto di Shibu divenne pallido dal dolore e dalla collera. Non una parola in risposta. Si adattò la borsa sulle spalle e tornò a casa. Il giorno dopo non andò a scuola. Suo padre andò dal direttore e gli disse: “Signor direttore, mio figlio non verrà più a scuola”. “Cosa è successo? Me lo dirai!” “Noi possiamo essere poveri, ma abbiamo una dignità!” Il direttore si fece raccontare il fatto dagli alunni. Spedì quindi una lettera al chairman: “Rispettabile chaiman shaheb, la prego di farsi vedere qui da noi a scuola. Si tratta di un problema urgente. I miei rispetti. Shoriph Alom, direttore scolastico”. Consegnò la lettera nelle mani di un alunno, che la recapitò al chairman. Il chairman shaheb, mentre si recava alla scuola, volle sapere dal figlio cosa era successo. 

Appena arrivato in classe, egli strinse la mano al papà di Shibu e disse: “Anondo babu (è il titolo di signore, riservato agli hindu), mio figlio ha commesso un’ingiustizia; la prego di volerlo perdonare. Le assicuro che fatti di questo genere non accadranno più”. Poi il chairman shaheb disse a tutti di mettersi a sedere nei propri posti. Nell’aula si era creato un tale silenzio che si sarebbe avvertito il fruscio di un filo di paglia cadente. Il chairman, rivolto al figlio, esordì con queste parole: “Jolil, quale lavoro tu pensi sia il più basso?” “Il lavoro del methor e quello degli spazzini”. “Bene! Se il lavoro è basso, allora non bisogna farlo! Non è vero?” “Certo che è vero”. “Dici sul serio?” “Ma certo”. “Il nostro pozzo nero si è riempito; io stavo pensando: chiamerò Anondo babu e me lo svuoterà. Ma, secondo te, il suo mestiere non è bello. Non è vero?” “Proprio così!” “Questo significa che ognuno dovrebbe svuotarsi il proprio pozzo nero. Non è forse così?” “Non capisco...”. “Lo so, per fare un tale lavoro ci vuole coraggio. Per due o tre ore non è cosa semplice sopportare la puzza e tu non hai quel coraggio. Cosa dici?” “Significa... che io...” “All’infuori di questa, che soluzione può esserci, sai dirmelo?” “E’ così...”

“Allora faremo proprio così. Oggi, dopo la scuola, noi due svuoteremo il nostro pozzo nero. Fra sei mesi, se nel frattempo tu avrai cambiato opinione, allora io lo farò sapere al papà di Shibu. Cosa ne pensi? Egli verrà e farà il nostro lavoro. Io lo conosco, a lui non manca il coraggio. Per questo, prima che tu nascessi, io sono suo amico e tutti lo sanno”. Quel giorno, dopo la scuola, Jolil insieme al papà svuotò il pozzo nero. Vomitò due o tre volte, ma suo padre non lo mollò finché il lavoro non fu completato. Da quel giorno Jolil capì quanto sia necessario quel lavoro e quanto è pesante. Da quel giorno non mancò più di rispetto a Shibu. Capì anche che nessun lavoro onesto è spregevole; è spregevole soltanto il mestiere del fannullone e di chi non vuole lavorare.

di p. Antonio Germano Das, sx.

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