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JHORNA

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Favola bengalese che vuol far riflettere

di p. Antonio Germano Das, sx.

14 luglio 2017

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BREVE PREMESSA. Anche questa fiaba, come del resto quasi tutte le fiabe, è a lieto fine e la sfortunata Jhorna troverà anche lei il suo principe che la sposerà. La parola jhorna(pronuncia inglese) nella lingua bengalese ha sfumature di significati, sempre comunque legati all’acqua. Di volta in volta può essere sorgente, cascata, fontana, doccia, ecc. Tante donne, poi, come nel caso della fiaba, si chiamano Jhorna. Nella favola si parla anche di cimici e pidocchi. Le nuove generazioni forse non li hanno mai visti, ma chi come me è nato quando è scoppiata la II guerra mondiale a riguardo ne sa qualcosa. Mi è capitato di rivedere certe scene quando sono arrivato in Bangladesh. Nella missione di Borodol, dove trascorsi i primi dodici anni, era uno spettacolo giornaliero. File di donne, accovacciate l’una dietro l’altra, si spidocchiavano a vicenda. Anche qui comunque le cose sono cambiate. La ragazza della favola è di una esemplarità eccezionale, in quanto ci insegna come l’apertura e l’attenzione verso l’altro, fatte col sorriso sulle labbra, possa aiutarci a superare i difetti che ognuno di noi si porta dietro. Ricorre di nuovo la parola ma (=mamma), titolo affettuoso con cui un anziano si rivolge ad una ragazza.

C’era una volta un boscaiolo. Egli aveva soltanto una figlia. Nella sua fanciullezza il sorriso della ragazza somigliava al gorgoglio di una sorgente d’acqua. Per questo la madre le diede il nome di Jhorna. Quando però arrivò all’età di 15 anni, Jhorna si rese conto che, anche se era bella, nessun giovane si sarebbe sposato con lei. La ragione era che Jhorna era cieca di un occhio. I giovani, infatti, venivano da lei per sposarla, ma, alla vista del suo occhio, si allontanavano. Tutti si chiedevano: “Una ragazza così bella come mai è diventata cieca?” Il dolore di Jhorna era immenso. Ma alla fine ella pensò: “Io ho un padre ed una madre, sto bene in salute e so fare qualsiasi tipo di lavoro. Quanta gente soffre più di me, perché dunque dovrei morire piangendo?” Da quel giorno la ragazza riprese a sorridere come una sorgente zampillante e a diffondere intorno a sé l’acqua zampillante del suo sorriso.

Un giorno che andò a raccogliere la legna si incontrò con una vecchia gibbosa. Jhorna le sorrise dolcemente. La vecchia la chiamò: “Ma, mi fai il piacere di fermarti un attimo? Sento un prurito sulla testa, puoi tu vedere cosa c’è?” Seduta sulla veranda, cominciò a spulciare i pidocchi dalla testa della vecchia, che le chiese: “Cosa hai scoperto, ma?” Jhorna, per non mortificarla, rispose: “Sfido io, in mezzo ai capelli ci sono tante gemme, come fai a non sentir prurito?” La vecchia riprese: “Ti supplico, ma, sii felice!” Jhorna sorrise. La vecchia continuò: “Ma, puoi vedere un attimo cosa c’è nel mio letto? La notte mi sento pungere continuamente”. Jhorna comincio a scuotere il letto dalle cimici. Il loro numero era così grande che quasi non si riusciva a vedere il letto. La vecchia chiese: “Cosa hai trovato, ma?” Jhorna, per non umiliarla, rispose: “Sfido io, con tante perle dentro il letto come è possibile sdraiarvisi sopra?” La vecchia riprese: “Ma, ti auguro che i tuoi due occhi possano risplendere come una stella”.

Questa volta però Jhorna cercò di sorridere, ma non vi riuscì. Le tornò improvvisamente in mente di essere cieca di un occhio. Col carico della legna sulla testa, piangendo tornò a casa. Ma prima di arrivare a casa le sue lacrime si erano asciugate. Deposto il carico della legna, alzando gli occhi, vide davanti a sé, seduto su un cavallo bianco, un giovane che la guardava. Jhorna, fissando i suoi occhi ed il suo volto, colta da meraviglia, disse: “Come hai potuto diventare così bello?” Il giovane a sua volta disse: “I tuoi due occhi sono come una stella del cielo e, vedendoti sorridere, le fate sopra la luna avrebbero invidia. A casa tua non c’è uno specchio? Ecco, guarda!” Dopo aver così parlato, il giovane le pose davanti uno specchio. Jhorna, per paura di vedere il suo occhio, in camera sua non conservava nessuno specchio. Aveva anche dimenticato quanto era bello il suo sorriso. Improvvisamente il suo sguardo cadde sull’occhio cieco. Gridando disse: “Oh! Il mio occhio, i miei due occhi!” Il suo occhio cieco era guarito, i suoi due occhi splendevano come stelle del cielo. Si ricordò allora le parole della vecchia: “Ma, i tuoi due occhi possano brillare come le stelle del cielo!” Il giovane disse: “Vieni a casa mia, ti farò conoscere mio padre”. Il padre era il re di quella contrada.ntinuare all’infinito, ma non voglio annoiarvi e soprattutto non vorrei lasciarvi con questa nota negativa, bensì con l’invito a ringraziare con me il Signore per quello che si è degnato di operare con me, indegno suo servo.

di p. Antonio Germano Das, sx.

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