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BOKA CHAN

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Favola bengalese che vuol far riflettere

di p. Antonio Germano Das, sx.

23 giugno 2017

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BREVE PREMESSA. Con questa fiaba incomincia la seconda serie della raccolta delle favole che sto traducendo. Ovviamente, come ho già fatto per la prima serie, scelgo solo quelle che ritengo più significative. La particolarità di questa seconda serie è che le favole sono più lunghe, quasi il doppio delle precedenti. Per la presente fiaba ho preferito lasciare il titolo originale in bengalese, perché è quasi impossibile renderne il significato pieno in italiano. Bokachan(cian in italiano) significa “Il figlio stupido”, la cui stupidità si rivelerà fonte di saggezza nel corso del racconto. Il termine boka è molto ricorrente nelle conversazioni o nei litigi. Il compianto nostro ex p. Ceci, ancora agli inizi della sua presenza in Bangladesh, aveva scritto un libretto dal titolo molto significativo “Bokabole, gorib” e cioè “Siamo poveri, perché ignoranti” ed era rivolto in maniera particolare ai Dalit, ai fuoricasta, per far capire loro che la via per la loro liberazione era quella della scolarizzazione.

Questa novella tornerà cara agli animalisti, così in voga ai nostri giorni, e non solo. In tutto il racconto si respira un’aria pacifica, che rifiuta, attraverso bokachan, l’istinto della violenza. Viene proprio a tiro citare il motto di Mahatma Gandhi: “Ohinshaporomdharma” e cioè: la non violenza è la religione suprema, che poi è il succo dell’insegnamento di Gesù. Ritornano nella favola termini divenuti ormai familiari: boro bhai, che è il fratello maggiore, mejobhai, che è il secondo dei fratelli e infine il chotobhai, che è il fratello minore, che qui è chiamato bokachan.

Un re aveva tre figli. Il primo era molto forte, il secondo era molto scaltro e l’ultimo era di una tale semplicità che lo chiamavano stupido. Divenuti grandi, essi chiesero al padre: “Papà, noi vogliamo fare un giro dentro e fuori la nostra terra in cerca di sapienza e di fortuna”. Il re benevolmente acconsentì e li lasciò partire. Un giorno i tre fratelli si stavano addentrando nel folto di una foresta, quando videro un formicaio. Il boro bhai, preso un bastone, stava per andare a distruggerlo. Il bokachandisse: “No, fratello, che male ti hanno fatto?” “Il tuo cuore è troppo tenero, fratello!... Va bene! Siccome l’hai detto tu, non lo distruggerò”. Andando ancora più avanti, videro alcuni anatroccoli che sguazzavano in mezzo ad un acquitrino. Questa volta il mejobhaidisse: “Io vado e faccio fuori un’anatra, perché mi è venuta fame”. Il bokachandisse: “No, fratello mio, non lo fare, i piccoli ne soffrirebbero!... ” Lo supplicò tanto che il mejobhaiandò in cerca di altro cibo. Ancora qualche istante dopo dal cavo di un albero venne fuori un ronzio di api. E’ l’occasione buona. I due fratelli più grandi, acceso il fuoco, stavano per mettere in fuga le api per mangiarne il miele. Ma anche questa volta intervenne il bokachan, supplicandoli di non recare danno alle api. I due fratelli, pur essendo molto scocciati, abbandonarono l’idea di gustarsi il miele.

Nella notte essi arrivarono ad una reggia. Con sorpresa notarono che lì nessuno era sveglio. Ancora più sorpresi quando videro che era pronta la cena per loro tre. Dopo aver cenato, si addormentarono. Al mattino, quando si svegliarono, ai loro occhi si presentò una scritta sulla parete: “In questa reggia addormentata, se volete esercitare la magia, dovete raccogliere e portare a casa nel giro di una giornata mille perle sparse nella foresta. Attenzione, però, se iniziando il lavoro non lo porterete a termine, sarete trasformati in pietre”. Il boro bhaisubito disse: “Certo che io posso!” E così si mise alla ricerca. Ma, al termine della giornata, non riuscì a portare più di cento perle. Calata la sera, egli fu trasformato in pietra. Il sejobhaidisse: “Io sono il più furbo di tutti, certamente riuscirò”. Egli riuscì a raccogliere duecento perle. Caduta la sera, anche lui fu trasformato in pietra.

Il bokachanpensò: “Se voglio salvare i miei fratelli, vivo o morto, io devo riuscire a completare il lavoro”. Si mise così alla ricerca delle perle. Però, a metà giornata, nel suo tentativo di ricerca, non riuscì a trovare più di venti perle. Si perse allora di coraggio. Seduto a terra si mise a piangere. Improvvisamente una formica lo chiamò: “Bokachan!” “Che sorpresa! Tu conosci il nostro linguaggio!” “Io sono il re delle formiche ed il re deve imparare molte cose. Lasciamo stare… Ma tu perché piangi?” “Per quanto io cerchi, non riuscirò mai a trovare le mille perle!” “Scovare le mille perle per noi è come un gioco. Aspetta un momento qui”. Ciò detto, il re delle formiche, a suo modo, convocò a raccolta le formiche. Nel giro di un minuto centinaia di migliaia di formiche risposero all’appello. In pochi minuti esse portarono le perle e riempirono il cesto del bokachan, che, portatele alla reggia, si mise a dormire. All’alba del giorno dopo, sulla parete della reggia dinanzi ai suoi occhi comparve un’altra scritta: “In questa reggia addormentata, se vuoi esercitare la magia, devi cercare nell’acquitrino e portare a casa la chiave della stanza delle principesse”. Il bokachanpensò: “Questa volta per me non c’è scampo. Anch’io, come i fratelli, sarò trasformato in pietra”.

In quel momento dall’acquitrino spuntò fuori un anatroccolo e disse: “Niente paura, ci siamo noi!” L’anatroccolo, facendo il verso “Qua! Qua!” non si sa cosa disse. Per un’ora migliaia di anatroccoli vagliarono a setaccio l’acquitrino. Alla fine, trovata la chiave, la portarono. Il bokachanandò per aprire la stanza delle principesse e si trovò dinanzi un’altra scritta: “Per esercitare la magia, bisogna svegliare la piccola principessa, che, dopo aver mangiato il miele, si è addormentata”. Il bokachan, aperta la porta, vide che cinque principesse dormivano l’una accanto all’altra. Il bokachanpensò: “Come potrò sapere in quale stomaco di principessa si trova il miele? …” Tra di esse ce n’era una di straordinaria bellezza. Il bokachanavanzò e si fermò dinanzi a lei. Improvvisamente un’ape, sniffando di bocca in bocca delle cinque principesse, alzatasi in volo si posò su di lei e disse: “Hai indovinato! Questa è proprio la piccola principessa!” “E tu come hai fatto a saperlo?” “Se non riconosco l’odore del miele, che razza di ape sono io?”

Il bokachansi volse a rimirare il volto della piccola principessa, che, ammiccando con gli occhi, sorrise. In quell’istante tutti quegli uomini, che erano diventati di sasso, ritornarono in vita. Il re diede la principessa in sposa al bokachan.

di p. Antonio Germano Das, sx.

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