JHOGRA

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Favola bengalese che vuol far riflettere

di p. Antonio Germano Das, sx.

30 maggio 2017

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BREVE PREMESSA. Nella lingua italiana non abbiamo un termine adeguato per tradurre la parola jhogra. Dire lite è troppo poco. Jhogra richiama tutta una coreografia, che ha per sfondo il villaggio o, meglio, la para, che è un quartiere del villaggio, dove la vita si svolge tutta all’aperto. Incomincia di solito per un motivo futile, come nel caso del racconto, s’infiamma ed esplode. E’ tutto un fiorilegio di titoli e parolacce: sembra addirittura una gara, chi più ne sa, più ne mette. Tutti escono sulla strada a guardare e diverstirsi o a partecipare a favore dell’uno o dell’altro litigante. Ha ragione chi ha più forza per gridare. Alle volte finisce bene, come nel racconto, spesso però finisce in maramarie cioè si viene alle mani, se si tratta di uomini o ad tira capillos, se si tratta di donne. Ricordo un episodio legato ai miei primi anni di vita missionaria. Siamo nel secolo scorso: 1978 a Borodol. Una volta, nel cuore della notte, scoppia un gondogol(altro termine per dire jhogra): strida ed urla. La cosa va avanti per ore. Non riuscendo a prendere sonno per la baraonda, ad un certo punto mi alzo, prendo la lampada a petrolio e mi faccio presente nel cuore della jhogra. Quando si accorgono di me, gridando “Il padre! C’è il padre!, tutti sidileguano e la jhogratermina come per incanto. Ognuno va a dormire. Anch’io torno sui miei passi e vado a dormire, finalmente indisturbato.

La mamma di Bappa, uscita a scopare nel cortile di casa, incomincia a dire, gridando in maniera che al di là della siepe la mamma di Rita, seduta in cucina, possa sentire chiaramente: “Evidentemente la gente è affamata, altrimenti non avrebbe motivo per rubare le uova delle galline! Guarda qui! Le mie sei galline fanno le uova. Qui ci sono solo tre uova, le altre tre dove sono?” Dall’altra parte la mamma di Rita risponde: “Eh! Vuoi dire che le mie galline non fanno uova? Ogni giorno io posso venderti 10 uova; io non sono in grado di competere con voi nella jhogra, la jhogra è il vostro mestiere!” “Può darsi che la jhogra sia il nostro mestiere, ma il vostro mestiere è quello di rubare”. “Chi è che ruba? Noi o i vostri figli? A causa dei vostri figli, quest’anno non ho potuto assaggiare neppure un lichu(frutto già apparso nelle favole precedenti) nel mio orto”.

Detto ciò, la mamma di Rita afferra un bastone e si dirige verso la cucina dei Bappa, ma si ferma a metà strada, perché la mamma di Bappa vien fuori col boti(attrezzo di cucina con lama affilata e fissata su un legno rettangolare di mezzo metro di lunghezza). Fortunatamente proprio in quel momento il papà di Bappa torna dai campi con l’aratro sulle spalle. La moglie fa dietro front e se ne torna a casa. Qualche istante dopo anche il papà di Rita torna dal bazar. Sentita la storia dalla moglie, si reca alla casa dei Bappa con 5 uova e chiede: “Quante uova sono venute a mancarvi?” Il papà di Bappa risponde: “Perché? Mia moglie dice 3 o 4, ma io non lo so”. “Su, prendile! Se ancora vengono a mancarvi, me lo dirai”. “Che scherzo è questo? Io non so se sono in credito di uova o no, perché dovrei prenderle?” “Devi prenderle! Per 5 uova farò jhogracon te?” “Siedi, prendi un the e poi vai; non è proprio il caso di litigare con te. Ascolta, sul nostro albero ci sono ancora 20-25 am(gli am sono i mango). Al bazar non troverai questo tipo di am, andando via prendi questi 4 am.” “No, bhai(fratello), il prezzo di questi amè di trenta take (30 centesimi)!”. “Su, prendili, altrimenti veramente farò jhogracon te!”

Dovette prenderli. La mamma di Rita, alla vista di quei 4 grossi am, provò una gran vergogna. Il giorno dopo, colta l’occasione, si recò dalla mamma di Bappa, portandole l’ultimo kathal(in inglese: jack-fruit; è un frutto della grandezza di una zucca, con la scorza ruvida. Dentro ci sono come dei grossi fagioli, avvolti da una polpa gialla, che è quella che si mangia) della pianta. Disse: “Bubu(termine affettuoso per “sorella”), quando sono arrabbiata, le parole mi escono dalla bocca senza controllo. A sbagliare sono stata io”. “Non sarà mai, bubu, ho sbagliato io!” “Proprio no!, la colpa è tutta mia!” “Ma come! Io dico che la colpa è mia!” Stavano sul punto di ricominciare a litigare di nuovo. Improvvisamente però si guardarono negli occhi. Scoppiarono in una risata che non riuscivano più a contenere.

di p. Antonio Germano Das, sx.

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