IL SUONO DELLE BASTONATE

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Favola bengalese che vuol far riflettere

di p. Antonio Germano Das, sx.

12 aprile 2017

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BREVE PREMESSA. Il racconto, che finisce in una farsa, tocca un problema che affligge tanti poveri in Bangladesh. Il ricco (è il caso di Kalek Miya), approfittando dell’ignoranza della povera gente, acconsente facilmente a fare dei prestiti ad un interesse da strozzinaggio. Inoltre, al momento del prestito, egli si fa dare i documenti del pezzo di terreno, di cui il poveraccio è padrone. Capita così che, se il malcapitato non riesce a restituire i soldi dentro il tempo stabilito, il ricco registra il terreno al proprio nome. Casi del genere sono frequenti in Bangladesh ed il povero non ha nessuna tutela. E’ capitato più di una volta anche a me, nei 40 anni spesi fra gli ultimi, di fronteggiare tali situazioni di ingiustizia.

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Kalek Miya (Miya è un appellativo usato dai Musulmani. Equivale a: signor, mister) aveva comprato il nostro terreno a buon mercato. Eravamo in debito con lui di 5 mila take (=50 euro). Non avendo potuto restituirgli i soldi, lui ha registrato la terra a suo nome. Quel giorno io non piansi, perché avevo solo 12 anni, ma mio padre sì che pianse. Ora anche il pezzo di terra, dove sorge la nostra capanna, corre il rischio di essere registrata a suo nome. In qualsiasi momento può venire e buttarci fuori. Quando lo vedo tutto il mio corpo entra in fibrillazione.

Una volta, in pieno mezzogiorno, stavo facendo il bagno nel pukur (=laghetto di quartiere), quando vidi Kalek Miya che avanzava lungo la strada che fiancheggia il pukur. Non potei più trattenermi. Mi immersi nel fondo dell’acqua e, afferrata con le mie due mani la melma nera del fondale, la scagliai contro il suo vestito bianco. Poi, nuotando, raggiunsi la sponda opposta del pukur. Seduto sulla sponda del pukur, mi stavo gustando lo spettacolo. Kalek Miya, chiamati mio padre e i capi del villaggio, scuotendo la testa, agitando braccia e gambe e alzando sempre più il tono della voce, cominciò a fare le sue rimostranze.

Alla fine, quando vidi che mio padre, attraversando a nuoto il pukur, stava per venirmi a prendere, fuggendo mi dileguai e mi nascosi in mezzo ad un campo di canna da zucchero. Vi rimasi nascosto per tutto il giorno. La notte, però, dietro lo stimolo della fame, fui costretto a tornare a casa. Mia madre mi diede da mangiare e per mezz’ora riuscì a tenermi nascosto. In piazza c’era ancora tanta gente e tutti parlavano della mia impertinenza. Mio padre venne, mi afferrò per un braccio e mi condusse all’interno della capanna. Poi, afferrato un bastone di bambù, cominciò a picchiare… uno, due, tre… dieci colpi. Io stavo morendo dalla paura e le mie strida riempivano il cielo.

Mio padre non lasciò il bastone finché non batté il ventesimo colpo. Poi uscì fuori. Tutti in coro incominciarono a rimproverarlo dicendo: “Vergogna! Stavi quasi per uccidere tuo figlio!” In realtà essi erano stati ingannati. Mio padre, colpendo col bastone, faceva un rumore tale che essi non poterono capire… I colpi di bastone non cadevano sul mio corpo, ma sul letto!

di p. Antonio Germano Das, sx.

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