Intervista a Stefano Sabelli

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I progetti del “Teatro del Loto” di Ferrazzano

di close-up.it

13 marzo 2017

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Incontriamo Stefano Sabelli direttore della "Compagnia del LOTO", residente presso il Teatro del LOTO a Ferrazzano, in Molise, paese natale dei nonni di Robert De Niro, che con grande gioia degli abitanti è stato eletto cittadino ad honorem.

Quest’anno ha messo in scena La Locandiera, con protagonista Silvia Gallerano che ha debuttato ad Asti Teatro ed è pure reduce da un’interessante regia del Re Lear in versione tzigana, in cui interpreta il ruolo protagonista, un volitivo ma inaspettatamente allegro uomo di potere alle prese con la divisione del suo "regno".

Proprio in merito all’adattamento shakespeariano andato in scena anche a Roma, al Teatro dell’Orologio, in cui ha riscosso parecchi consensi, gli vorremmo dedicare un’intervista per approfondire alcuni aspetti che caratterizzano l’analisi dei personaggi e alcune scelte di regia, vista la mole incredibile di interpretazioni shakesperiane realizzate nell’anno appena trascorso, dedicato al 400 anno dalla morte del grande drammaturgo inglese.

Nella scelta della versione in chiave zingaresca, cosa ti ha motivato di più? Quale ritieni sia la chiave di lettura più appropriata nel dare valore al testo attraverso un adattamento culturale che ha molti parallelismi ma anche un sostrato culturale e antropologico così lontano dalla versione elisabettiana?

Stefano Sabelli: Re Lear, dopo il Saul di Alfieri, realizzato nel 2015, compone il secondo capitolo del focus che la Compagnia del LOTO ha dedicato alla decomposizione della Famiglia, alla Follia senile e alla caducità di Re, regni e potere. 

A me interessava raccontare soprattutto la storia di un clan, di una famiglia, più che di un regno e questa versione quasi rom mi ha dato più possibilità in questo senso. Senza contare che la dimensione “balcanica”, da implosione di frontiere, pur restando a noi più contemporanea (che è stata una chiave di lettura e resa scenica in più che ho avuto), manteneva quel carattere selvaggio e tribale dell’antica Britannia in cui Shakespeare ambienta il Lear, una terra arida e fredda allo stesso tempo, come certi paesaggi balcani.

Abbiamo notato che ami molto le scene corali, in cui i personaggi compongono uno splendido mosaico scenico e si uniscono formando un’unica voce o coscienza. Come sei arrivato a questa scelta anche testuale e di rilettura?

S.S.: Anche se può essere il luogo di splendidi individualismi, per me il Teatro, per reinventarsi sempre, ha necessità strategica e strutturale di grande coralità. 

In un periodo storico dove, a parte gli stabili pubblici, il teatro si fa sempre più monologante, un po’ per contenere i costi (si investe solo su Compagnie con pochi attori) un po’ perché l’unico esercizio è ormai quello che chiunque s’alza dice di la propria, la scelta del LOTO di scommettere su una Compagnia numerosa con tanti giovani talenti, consente di dare un respiro più ampio al nostro modo di fare e vivere il Teatro che è anche il desiderio di elaborare un pensiero collettivo. Artistico, in questo caso ma comunque al servizio del bene comune. 

Registicamente una Compagnia così formata, dove tutti giocano perfettamente il loro ruolo in modo singolo ma sanno anche trasformarsi all’occorrenza in voce unica, corale, capace di fare squadra, ti consente di aggredire lo spazio scenico, di reinventarlo continuamente, per crearne una molteplicità, di spazi scenici. Soprattutto quando si sceglie la nudità del Teatro, con pochi elementi scenografici, come nel caso del nostro Lear.

Questo spettacolo per altro nella sua prima versione estiva nasce itinerante e ha utilizzato le splendide scenografie naturali del sito archeologico dell’antica Sepino, in Molise, dove gli spettatori venivano guidati dall’orchestra e dagli attori in diversi scenari architettonici e naturali sempre diversi, quasi come in un film. Questa è un’opportunità che ti puoi concedere se hai una compagnia numerosa in cui tutti sanno fare tutto, dagli attori ai tecnici, ai fantini e circensi, perché c’erano anche diverse scene coi cavalli. 

Non è soltanto la mia specifica volontà di abbattere il più possibile la quarta parete, in cui ti obbliga il teatro all’italiana, ma quella di cercare e farti sorprendere, anche nella fase creativa e di messa in scena, da diversi piani di ascolto e di prospettiva visiva. Piani diversi in grado di proporre suoni e voci multiple, capaci di sommarsi, moltiplicarsi e ribaltarsi, arrivando appunto da prospettive e piani di ascolto diversi … Il pubblico mi piace avvolgerlo, sedurlo e spiazzarlo, avendo a disposizione più orizzonti visivi e d’ascolto. Non mi piace affrontarlo solo frontalmente, appunto!

Quali sono i tuoi progetti futuri?

S.S.: Nel 2017 e 2018 porteremo ancora in tournée sia La Locandiera sia Re Lear, proponendolo anche nella versione estiva itinerante, quella del debutto a Sepino, che vide presente anche Alessandro Serpieri, che ci ha lasciato da poco e a cui va tutta la mia immensa gratitudine per averci fatto dono della meravigliosa traduzione,ancora inedita, che ha realizzato. Alessandro, ha vissuto 3 giorni con noi a Sepino e poi ha rivisto lo spettacolo in autunno al chiuso all’Orologio. Fu molto colpito nel vedere l’energia, il talento e la passione che tutti i giovani interpreti hanno profuso nel nostro Re Lear. A parte me che ho raggiunto i 60 ma che forse ho fatto volutamente un Lear più energico e dissoluto di quello che forse uno s’aspetta dal ruolo, la Compagnia è mediamente molto giovane. In prospettiva è assolutamente una gran cosa, avere a che fare con interpreti così talentuosi e di grande energia. 

Naturalmente non trascurerò progetti nuovi per la Compagnia, da 3 anni riconosciuta dal MIBACT e finanziata dal FUS come Teatro d’innovazione. 

È la priva volta in assoluto nella storia che questo è capitato a una Compagnia molisana e di questo ovvio siamo particolarmente fieri e questo ci porta anche ad impegnarci sempre in nuovi progetti.

di close-up.it

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