La Mesopotamia tra Trigno e Fortore

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Anche per il Molise si può parlare di una civiltà fluviale perché fin dalle epoche più antiche la comunità regionale si è dovuta misurare con la presenza dei tanti fiumi

di Francesco Manfredi-Selvaggi

12 novembre 2021

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Anche per il Molise si può parlare di una civiltà fluviale perché fin dalle epoche più antiche la comunità regionale si è dovuta misurare con la presenza dei tanti fiumi che corrono nel suo piccolo territorio. Ci si è dovuti imparare a proteggersi dalle acque e da mezzo secolo a sfruttarle con profitto realizzando invasi di livello europeo.

Se ci consideriamo veramente una società discendente dai Sanniti allora dobbiamo riconoscere che la nostra storia ha avuto origine dalle rive di un fiume, il Biferno perché è alle sue sorgenti che si sono fermati i Sabini al termine del ver sacrum dando vita a Bojano, il capoluogo del Sannio. Che le civilizzazioni si siano affermate presso i corsi d’acqua è una costante fin dall’antichità, prendi la Mesopotamia o la Valle del Nilo, e neanche noi smentiamo questa, per così dire, regola remota. Solo è che altrove il corpo idrico costituisce un fattore attrattivo in quanto consente l’irrigazione dei campi, quindi favorisce l’agricoltura, mentre qui è da ritenere che l’acqua sia un elemento di richiamo perché permette l’abbeveraggio delle greggi durante la transumanza, quindi è a supporto della pastorizia e quello sannitico è un mondo pastorale.

Il centro matesino è, infatti, attraversato nel suo cuore da uno dei principali tratturi, il Pescasseroli-Candela, il quale, peraltro, non poteva che passare di lì in quanto alle scaturigini è più agevole il transito, nel caso in questione delle pecore, altrimenti difficoltoso lungo il resto dell’asta fluviale (c’è la testimonianza del futuro re Francesco II che deve scendere dalla carrozza per raggiungere l’altra sponda del Biferno in località La Fiumara). Gli insediamenti sanniti non erano vere e proprie città, la loro struttura insediativa era di tipo paganico, e lo diventeranno solo con i Romani che vi istituiscono i propri Municipi rientranti in un progetto assai ampio di trasformazione del territorio conquistato finalizzato, tramite la centuriazione del terreno, allo sviluppo agricolo.

Essi sanno regimare le acque e perciò possono permettersi di creare unità urbane all’interno delle pianure alluvionali, le maggiormente fertili anche perché irrigabili, vedi Altilia che non è distante dal Tammaro nella cui piana sono state ritrovate tracce della centuriatio dell’ager; con la caduta dell’Impero a seguito delle invasioni barbariche si ha l’abbandono della manutenzione delle opere idrauliche realizzate da cui l’impaludamento dell’area e la inevitabile ritrazione della popolazione dalle zone pianeggianti e il trasferimento degli abitati in altura.

Si ritiene che l’arroccamento sui colli sia legato a ragioni difensive, per proteggersi dalle incursioni barbaresche, ed è vero, ma vi è anche il motivo di volersi proteggere dalle piene dei corsi d’acqua che scorrono nel fondovalle. È talmente forte questa paura che nel Molise, con l’eccezione di Bojano, non vi sono entità urbanistiche che nella loro parte centrale comprendano un alveo fluviale, mentre altrove è frequente trovare fiumi dentro i nuclei abitativi, dal Tevere a Roma all’Arno a Firenze al Po a Torino, i quali, nei casi citati, hanno fatto la propria fortuna proprio grazie a queste presenze. L’acqua è una risorsa ed, appunto, si dice risorsa idrica, ma dalle nostre parti è piuttosto sentita come un pericolo per cui ci si discosta da essa (a Bojano, addirittura, si voleva “tombare” il Calderari).

Della rete idrografica, comunque, non si può fare a meno: si usa, oggi, pure nel Basso Molise con l’arrivo dell’acquedotto Molisano Centrale, l’acqua di sorgente per bere e non quella fluente nei letti dei fiumi come ancora avviene in diverse parti d’Italia, d’accordo e, però, per numerose altre esigenze serve proprio la corrente idrica impiegata, da tempi lontanissimi, quale forza motrice dei mulini, ogni paese ne ha bisogno di uno, dei lanifici, quello di Sepino attivato da una turbina idraulica, delle “ramere” ad Agnone per la battitura del rame e così via.

In tale “così via” occupano un posto di rilievo a partire dalla fine del XIX secolo le centrali idroelettriche e il Biferno si presta benissimo a questo scopo, perlomeno il pezzo che ricade nel Molise Centrale per una sua caratteristica unica nel quadro dell’idrologia regionale la quale è la seguente: questo corso d’acqua è alimentato da serbatoi idrici sotterranei al di sotto del massiccio carsico del Matese e ciò fa sì che abbia una portata costante, oltre che notevole data dall’elevazione della montagna, la quale condiziona l’andamento del Biferno, fiume dal flusso regolare che neanche l’apporto degli affluenti riesce a trasformare in torrentizio prevalendo di molto il quantitativo d’acqua proveniente dai depositi interrati del complesso montuoso matesino.

Bisognerà giungere a circa la mezzeria dell’asse fluviale perché i rapporti tra acqua sorgentizia e quella conferita dai tributari si capovolga rendendo il fiume particolarmente instabile in quanto a massa idrica trasportata; esso diventa sensibile alle piene, cioè, dei torrenti presenti nel suo bacino imbrifero. Tale diversità di comportamento del Biferno si è accentuata dopo la captazione delle sue sorgenti avvenuta intorno al 1960 alterando le percentuali tra le acque sorgive e quelle raccolte lungo il suo cammino con una progressiva prevalenza di queste ultime.

È il tempo per tornare agli impianti idroelettrici che in serrata successione, uno dietro l’altro, si posizionano ai lati del Biferno, nella sua prima metà, favoriti dalla regolarità dell’afflusso dell’acqua e, pure, dalla ridotta velocità della corrente, ulteriore condizione favorevole che si riscontra in quest’asta fluviale in virtù del limitato dislivello tra l’origine, che è in piano, la conca di Boiano e il termine. La stagione aurea delle centraline idroelettriche dura pochi decenni; esse sono destinate, in termini di contributo al fabbisogno energetico ad essere surclassate dalle due grandi centrali di S. Massimo e di Colli al V. le quali sfruttano salti poderosi, con il trampolino costituito rispettivamente dall’altopiano matesino e dalle altezze delle Mainarde.

Quelli elencati, tra cui l’energia, sono utilizzi ben evidenti delle acque del fiume, ma ve ne sono anche altri, meno riconoscibili che, di certo, comunque esistevano se la stragrande maggioranza dei comuni molisani tendeva ad includere nel proprio perimetro amministrativo un pezzetto di asta fluviale. Succede sul Biferno, sul Trigno, dove vi è il caso strano di Bagnoli il quale, nonostante l’appellativo “del Trigno”, non include nei suoi confini nessuna porzione di questo fiume, sul Tappino, nella cui vallata sono compresi ambiti comunali non direttamente rivieraschi, vedi Monacilioni, e via dicendo.

Nel passato la nostra è stata una civiltà fluviale che è poco conosciuta semplicemente perché non siamo capaci di cogliere le evidenze, mentre quella odierna ha manifestazioni assai sicure. Il rapporto della società molisana con l’idrografia, si direbbe, vistoso, rappresentato platealmente dagli enormi invasi del Liscione e di Occhito. Le dighe hanno cambiato totalmente l’aspetto della fascia costiera in maniera congiunta con la bonifica agraria trasformando lande paludose in comprensori irrigue, dimostrando che l’acqua da problema può diventare opportunità.

di Francesco Manfredi-Selvaggi

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